La siccità ha abbattuto i raccolti del Canada, primo esportatore mondiale Le quotazioni sono quasi raddoppiate e per chi non ha scorte di semola produrre diventa impossibile
Quella che si è appena chiusa è stata un’estate caldissima. Dovunque. Nella provincia canadese del Saskatchewan non è piovuto quasi mai e a inizio luglio la temperatura ha raggiunto il massimo storico dei 40°. Il meteo canadese sarebbe trascurabile per gli italiani, se il caldo e la siccità del Saskatchewan, il territorio che produce quasi tutto il grano duro canadese, non fossero all’origine di un inaudito guaio alimentare a cui rischiamo di andare incontro: la carenza di pasta.
«Tra marzo e maggio non avremo abbastanza grano per fare la pasta» ha avvertito qualche giorno fa Giuseppe Ferro, amministratore delegato della Molisana, che è il terzo pastificio italiano (Ferro ha poi chiarito che la Molisana riuscirà comunque a produrre, perché ha fatto scorta di grano nei magazzini, ma altre aziende avranno problemi seri). È in corso una crisi mondiale del grano che non si vedeva da decenni.
La produzione mondiale di grano duro, quello che si usa per fare la pasta, secondo le ultime stime dell'International Grain Council dovrebbe fermarsi a 33,1 milioni di tonnellate, il 2,1% in meno rispetto a un anno fa. La produzione del Canada, che è il primo esportatore di grano duro del mondo, è precipitata del 46%, da 6,5 a 3,5 milioni di tonnellate, il raccolto più scarso dell’ultimo decennio. Analogo crollo negli Stati Uniti, dove il raccolto si è dimezzato da 1,9 a 1 milione di tonnellate.
Con meno grano duro in circolazione i prezzi sono impazziti. Sulle principali Borse merci italiane per i cereali – Milano, Foggia, Bologna – le quotazioni del grano duro sono balzate dai circa 300 euro a tonnellata di giugno agli attuali 500 euro per il frumento nazionale fino ai 600 per quello di importazione. «È una delle crisi peggiori che abbiamo mai visto. Siamo all’inizio, vedremo che cosa succederà nei prossimi mesi, c’è il rischio che possiamo rimanere senza grano prima della nuova campagna» ammette Enzo Martinelli, vice presidente e responsabile della Sezione Frumento Duro di Italmopa, l’associazione dei mugnai. Il rischio di restare senza pasta è reale, conferma Riccardo Felicetti, presidente dell’associazione dei pastai, il gruppo Pasta di Unione Italiana Food. «Un pastificio potrebbe scegliere, vista la difficoltà economica in cui si potrebbe trovare, di non acquistare più materia prima – spiega Felicetti –. Il rischio c’è, poi dipende dalla capacità di ogni azienda di organizzarsi».
Felicetti da rappresentante dell’associazione di settore non può esprimersi sui prezzi finali della pasta, perché le aziende rischierebbero di essere accusate di “fare cartello”. Ma non è un mistero che nelle trattative con la grande distribuzione si parla di aumenti nell’ordine del 15-20%. Sui giornali si moltiplicano gli appelli dei supermercati per chiedere al governo di gestire questo passaggio per evitare che i rincari arrivino direttamente sugli scaffali. Lo ha detto chiaramente Marco Pedroni, di Coop, poche settimane fa. Lo ha scritto, con un annuncio a pagamento, Patrizio Podini di Md.La crisi del grano ha risvegliato lo scontro tra agricoltori e industria. Se la siccità canadese ci mette in difficoltà è perché l’Italia non produce tutto il grano duro che usa per produrre pasta e, in minore quantità, pane. Abbiamo un fabbisogno di circa 6 milioni di tonnellate di frumento duro all’anno: 4 milioni vengono dalla produzione nazionale, 2 dalle importazioni. In un anno normale, circa 1,5 milioni di tonnellate di grano arrivano dal Canada e il resto principalmente e da Stati Uniti e Francia. «Molte industrie anziché garantirsi gli approvvigionamenti con prodotto nazionale hanno preferito acquistare sul mercato internazionale approfittando delle basse quotazioni dell’ultimo decennio» accusa Coldiretti, che ricorda come in Italia, a differenza del Canada, sia vietato l’uso del diserbante glifosato in pre-raccolta. Mugnai e pastai respingono l’accusa. «È miope condannare le importazioni, spesso con motivazioni strumentali. Importiamo merce sana e di qualità, sottoposta a tutti i controlli sanitari – nota Martinelli – per produrre pasta apprezzata in tutto il mondo: esportiamo il 55-60% della pasta che produciamo. Il mercato del grano è globale e quando c’è un deficit strutturale nella quantità di grano prodotto nel mondo ne risentono tutti. Oggi è capitato in Canada, domani potrebbe succedere a noi». Anche Felicetti, che con la sua azienda produce una pasta di fascia alta, non considera l’italianità del grano un fatto fondamentale: «L’agricoltura italiana è notoriamente una coperta corta. Se produciamo più grano dobbiamo ridurre qualcos’altro, le scelte delle coltivazioni sono fatte in base alla remunerabilità del terreno. A prescindere da polemiche o strumentalizzazioni, in certi casi il grano straniero è determinante per il mantenimento delle caratteristiche qualitative della pasta».
Se l’Italia vuole produrre più grano, è questo il momento di deciderlo. Il frumento si semina tra ottobre e novembre, per la raccolta tra giugno e luglio. Il ministero dell’Agricoltura ha da poco creato una Commissione Sperimentale Nazionale frumento duro, dove i rappresentanti di agricoltori e industria si confrontano sui prezzi a livello nazionale, in base alle quotazioni delle diverse Borse merci. Per mugnai e pastai è una novità positiva, se non si cade nella tentazione di cercare di fissare un prezzo unico per il grano duro italiano. Per gli agricoltori può essere una grande occasione di dialogo. «È un tavolo che può diventare strategico per fare sinergie» spiega Emanuele Occhi, responsabile del settore Grandi Colture di Coldiretti. Da tempo l’associazione degli agricoltori lavora per sviluppare ancora meglio i contratti di filiera, quelli con cui un’azienda produttrice all’inizio della stagione si accorda con gli agricoltori sulle quantità da produrre e i prezzi di acquisto. «Facciamo da anni contratti di filiera con importanti pastifici: sono soluzioni che da un lato consentono la programmazione e dall’altro l’equa remunerazione – dice Occhi –. Oggi questi contratti coprono un po’ meno di un milione di tonnellate di grano duro prodotto in Italia. È una soluzione che consente di uscire da una logica di mercato che spesso risente della speculazione a livello mondiale».