Per molti si tratta soltanto di un luogo comune da sfatare, usato come argomento da chi vorrebbe favorire un’immigrazione indiscriminata. In realtà, però, è il ministero del Lavoro a certificare che gli stranieri, almeno in Italia, svolgono i lavori che i nostri concittadini non hanno più voglia di fare. Nella Penisola, poco meno dell’80% della mano d’opera straniera è infatti impiegato come operaio, percentuale che «nel caso degli occupati nativi scende a poco più del 30%». Il dato è contenuto nel IX Rapporto annuale sull’impiego degli stranieri, presentato ieri a Montepulciano (Siena), nell’ambito della manifestazione “Luci sul lavoro”.
Dallo studio emerge inoltre che la popolazione straniera residente nel nostro Paese (5,144 milioni pari all’8,5%) è minore di quella presente in Germania (11,7%) e in Regno Unito (9,5%), senza contare che l’Italia, si legge ancora nel rapporto, «è un Paese di recente immigrazione», nel quale circa il 9,2% dei residenti è nato all’estero, contro una media dei Paesi Ocse del 9,8% e del 10,7% dell’Unione Europea.
Tornando al tipo di occupazione svolta, in Italia solo un lavoratore straniero su 8 svolge una professione altamente qualificata (13,5%), a fronte di un rapporto che per gli occupati nativi è pari a due su cinque (39,8%). Complessivamente la partecipazione al lavoro degli stranieri è comunque elevata anche se varia a seconda della comunità di origine di appartenenza. Il primato per il tasso di occupazione più alto spetta ai filippini (82,2%), seguiti dai cinesi (72,4%) e dai peruviani (71,1%). D’altro canto va registrato il notevole tasso dei senza lavoro tra i marocchini (22,3%), i tunisini (19,9%) e gli albanesi (18%).
Un capitolo a parte merita la condizione della popolazione straniera femminile che, spiegano i tecnici del ministero, «esercita un peso rilevante nel comprimere, ovvero incrementare, i valori dei tassi di occupazione, disoccupazione e inattività». Per le donne appartenenti a determinate comunità è «più difficile emanciparsi dall’esigenza di conciliare il lavoro con le responsabilità familiari, rese gravose dalla presenza di figli piccoli». Un gap evidente rispetto alle lavoratrici italiane per le quali, invece, «le possibilità di conciliazione sono più ampie anche grazie a reti parentali o all’acquisto di un lavoro domestico». Mentre molte immigrate, a seguito della maternità «sono costrette a rimanere al di fuori del mercato del lavoro non potendo contare su servizi pubblici (a volte di difficile accesso), o su quelli privati (troppo costosi), oppure sul sostegno dei familiari, spesso assenti perché rimasti nel Paese di origine».
Entrando nel dettaglio, il tasso di disoccupazione più alto è quello delle donne tunisine (51,4%), seguite dalle egiziane (36,0%), e dalle marocchine (33,1%). Ma a preoccupare è l’inattività femminile che nel caso della comunità pachistana, egiziana e Bangladese supera l’80%.
La partecipazione al lavoro è rilevante per alcune comunità, come nel caso dei «filippini (82,2%), per i quali si registra il valore più alto, dei cinesi (72,4%) e degli ucraini (68,8%)»
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