Premette che è una guerra «pacifica», ma per Mario Monti il nocciolo di tutti gli sconvolgimenti avviati dal suo governo è uno: da quando lui è in carica, l’Italia «ha intrapreso un percorso di guerra durissimo». Un percorso avviato a partire da quel G20 di Cannes (novembre 2011) in cui - ricorda ora il premier, nel giorno in cui si riparla di un Silvio Berlusconi di nuovo in campo - il Paese toccò il punto più basso, con il Cavaliere «sottoposto a pressioni sgradevolissime e prossime all’umiliazione, che ci avrebbero portato a cedere buona parte della sovranità».Reduce dal nuovo
tour de force brussellese per imporre la validità del meccanismo anti-
spread, Mario Monti fa il suo debutto, per la prima volta da ministro dell’Economia (e ultima, dato che due ore dopo si è dimesso a favore del vice Grilli), a un’assemblea di un’importante associazione di categoria. E non a caso sceglie quelle banche che lo hanno sempre appoggiato, anche se il governo «non è stato tenero» nei loro confronti, per ammissione del presidente stesso dell’Abi, Giuseppe Mussari. Banche da Monti messe volutamente a raffronto (con tanto di ampi stralci della relazione di Mussari riletti dal premier) con le altre parti sociali - sindacati e imprese - bollate invece come "non collaborative". È con loro che ce l’ha, non con i partiti e il Parlamento, che anzi hanno dimostrato «responsabilità», tanto da dare «serenità sulle prospettive di governo» dopo le elezioni del 2013. La critica è così radicale che, nell’indicare una «innovazione» di fondo adottata dall’esecutivo in carica, il presidente del Consiglio non enumera questa o quell’altra riforma, ma la «diminuzione oggettiva del loro ruolo di compartecipazione» alle decisioni di politica economica, decisioni che invece il governo deve poter prendere «da solo». Di più: «Esercizi profondi» di quella concertazione che pur Monti ha già fortemente compresso nelle ultime, anomale "trattative" sulle pensioni e sul mercato del lavoro, a suo dire in passato «hanno generato i mali contro cui noi combattiamo e a causa dei quali i nostri figli non trovano facilmente lavoro». Le parti sociali, insomma, sono sì «importanti», ma «non soggetti verso i quali il potere pubblico dia in
outsourcing (cioè in affidamento all’esterno,
ndr) responsabilità politiche».Il Professore sembra un po’ affaticato dall’ultima trasferta nella "capitale" della Ue, ma determinato come sempre. Ed elenca uno a uno gli ostacoli che si frappongono all’attività del suo governo. A partire dagli stessi vertici europei: gli ultimi, dice, rappresentano «progressi troppo lenti rispetto alle urgenze, ma impensabilmente veloci rispetto ai riti» delle decisioni in Europa; ancora non tali da dare però ai mercati l’impressione che «queste decisioni somiglino alla tela di Penelope, senza riferimenti – celia Monti pensando alla Grecia – al paese al quale Penelope apparteneva». Ci sono poi quegli «interessi legittimi, ma forti, fortissimi» contro i quali Monti ammette di essersi scontrato a più riprese, fino al decreto sulla
spending review.Sono le pietre miliari di questa guerra che stiamo combattendo, precisa il Professore, «contro i diffusi pregiudizi sull’Italia, contro le ciniche sottovalutazioni di noi stessi, le eredità del debito pubblico, gli effetti inerziali di decisioni del passato e contro vizi strutturali della nostra economia». Un conflitto in cui, al posto della forza, servono «i muscoli dell’intelletto e della diplomazia». La strada per uscire dal tunnel, quindi, è ancora lunga: Monti cita le stime di martedì del Fmi che collocano l’uscita in un «qualche punto» del 2013, ma rincuora la platea assicurando di «non avere dubbi» che ci saranno le ricadute sulla crescita di tutte le misure adottate. Questi saranno, tuttavia, i benefici più differiti nel tempo per i cittadini. A differenza di quei cambiamenti nell’«opinione pubblica mondiale» che invece già si vedono. Resta a metà strada quel campo d’azione su cui Monti «confessa» di provare «un motivo di frustrazione»: i mancati effetti in termini di discesa degli
spread sui tassi d’interesse. È per questa ragione che l’Italia si sta battendo per uno scudo anti-
spread che non comporti di delegare la politica economica a organismi internazionali (Ue, Bce e Fmi); perché noi siamo «un Paese che è tra i più pronti alla condivisione di pezzi di sovranità con altri», ma non a «una cessione "secca"».