Le dichiarazioni del premier Mario Monti sul giusto rapporto tra concertazione e responsabilità politica sono difficilmente equivocabili. Eppure rischiano ugualmente di innescare una sorta di cortocircuito. È certamente vero, infatti, che «il potere pubblico non può dare in outsourcing alle parti sociali», cioè appaltare all’esterno, «la responsabilità politica di decidere» in nome dell’interesse generale. Ma è altrettanto vero che l’interesse generale, per essere servito in maniera legittima ed efficace, ha bisogno anzitutto di poteri politici che si siano formati grazie a un processo democratico sostanziale. Che si invera ovviamente nel momento del voto popolare, ma almeno altrettanto in quel costante rapporto dei rappresentanti con la realtà dei rappresentati – cioè dei cittadini nei loro diversi ruoli e della società nelle sue diverse formazioni – che tanto è mancato in questi anni all’Italia e agli italiani. È proprio questo che noi tutti attendiamo da una politica che dovrebbe saper riformare se stessa, guardando lucidamente avanti e mettendo a frutto il prezioso lavoro di supplenza svolto dai ministri tecnici guidati da Monti.Un cortocirtuito, dicevamo. Sarebbe facile in effetti – e, ieri, alcuni non hanno mancato di sottolinearlo – notare come l’attuale sia un governo non legittimato direttamente dal voto popolare. Il punto, però, è un altro. È che proprio questo esecutivo si regge in realtà sulla base di una (positiva) concertazione. Che cos’altro è, infatti, se non una "concertazione" la volontà dimostrata finora dai tre maggiori partiti di trovare faticosi punti di equilibrio tra visioni profondamente diverse, sacrificando ognuno qualcosa pur di salvare il Paese da una terribile crisi economico-finanziaria? E lo stesso Mario Monti che cos’altro difende in Europa, se non la nostra qualificata presenza nella moneta unica, resa possibile proprio dalla fertile stagione della concertazione governo-parti sociali di vent’anni fa?Da questo punto di vista, è perciò sbagliato sostenere che gli «esercizi profondi di concertazione» del passato «hanno generato i mali contro cui noi combattiamo e a causa dei quali i nostri figli non trovano facilmente lavoro». Perché se è vero che alcuni veti sindacali e certi forti interessi imprenditoriali negli ultimi decenni hanno frenato alcune modernizzazioni, è ancora più vero che l’uso (tutt’altro che responsabile) del potere politico è stato in grado, nella storia del Paese, di produrre non pochi guasti economici e sociali anche in splendida autonomia. I monopoli di fatto tuttora esistenti nella nostra economia, le liberalizzazioni annunciate e non attuate, le distorsioni del nostro sistema fiscale anti-familiare – solo per fare alcuni esempi – sono ancora oggi il frutto non tanto di una concertazione che da tempo non viene più praticata, quanto della miopia e dei cedimenti della politica.Alle rappresentanze sociali va poi riconosciuto almeno il merito di aver contribuito a evitare strappi violenti e dolorosi nel tessuto della coesione nazionale. Anche in questa fase di crisi violenta e di riforme che hanno inciso in profondità, infatti, la reazione dei sindacati – tutti – nel gestire la protesta è stata esemplare per responsabilità e "prudenza". Si guardi a cosa è accaduto ieri a Madrid o nei mesi scorsi ad Atene e si ripensi a quante ore di sciopero sono state effettivamente proclamate nel nostro Paese.Beninteso: i rischi di scadere nel corporativismo, nella paralisi dei veti incrociati o, peggio, di privilegiare alcune rappresentanze, finendo per servire gli interessi di alcuni a danno di altri, sono sempre presenti quando si sceglie di concertare. Ma non sono maggiori rispetto al rischio di cadere nel "verticismo" di chi si proclama capace di scegliere e agire per il bene di tutti in base a ricette teoriche, muovendo solo dall’alto, snobbando l’apporto dei corpi intermedi della società. Sappiamo che Mario Monti non pensa e non punta a questo (sebbene certi suoi avversari abbiano scritto, e fatto, letteralmente di tutto per appiccicargli feroci etichette élitarie). E, in realtà, è stata la stagione politica che viene chiamata Seconda Repubblica, e che ha portato al governo dei tecnici, a regalarci gli esempi più clamorosi e persino drammatici di scollamento tra Palazzo e Paese reale. Per questo va recuperato e mantenuto un sano equilibrio. Se è vero, come ha sottolineato lo stesso premier, che dobbiamo ancora affrontare un «percorso di guerra» non abbiamo bisogno solo di decisioni forti e di cambiamenti veloci e profondi. Ma anche e soprattutto abbiamo necessità di unità, di adesione e di partecipazione allo sforzo comune.
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