- - Patrick Daxenbichler - www.pd-design.at
La Messa di Natale per me è da sempre uno degli appuntamenti più intensi dell’anno. Fin da bambino l’ho vissuta come un momento magico: nasceva Gesù, dopo tanta attesa. Era come, per un istante, affacciarsi su un mistero infinito, dalla insondabile profondità. Quando ero piccolo la Messa di Natale era quella del mattino: fuori sul piazzale il gelo della Pianura Padana, dentro la chiesa quel misterioso calore del bambino comparso nella culla. Poi, una volta adolescente, la Messa di Natale è diventata quella di mezzanotte: fuori il buio, dentro la chiesa scintillante e poi gli abbracci con gli amici e le strette di mano e i sorrisi anche con chi amico intimo non era. Quest’anno la mia Messa di Natale è stata il 16 dicembre. Non in Pianura Padana, dove sono nato e cresciuto, ma in Sicilia. Non in una chiesa addobbata a festa, ma nell’atrio di un carcere, uno dei luoghi più caldi in cui io sia mai stato. L’atrio del carcere di Piazza Armerina: l’altare era stato allestito lì, perché la cappella era troppo piccola.
Avevo già conosciuto quel luogo e le persone che lo vivono alcuni mesi prima: mi ero subito sentito stranamente bene dietro quelle sbarre, dove a tratti si respirano scintille di un futuro possibile e, più che in un carcere, sembra di stare in una comunità. Anche questa volta l’accoglienza è stata calorosa: mi sono trovato in prima fila, davanti al celebrante, seduto tra la direttrice e l’educatrice, di fianco ad altri operatori, tra i detenuti e gli agenti della polizia penitenziaria. La prima lettura viene letta con grande intensità da un detenuto di origine straniera: si è allenato a lungo, da solo, per leggerla davanti a tutti. È un brano tratto dal capitolo 24 del libro dei Numeri, un oscuro testo in cui un certo Balaam vede Israele accampato e dice che un velo gli cade dagli occhi: a quel punto vede per Israele un grande futuro e benedice tutta la casa di Giacobbe. Il celebrante decide di commentare proprio questo brano nell’omelia, sorprendendomi: «Lo sapete chi è una magara?» chiede. Certo che tutti qui lo sanno: è una specie di fattucchiera, una donna ingaggiata per lanciare il malocchio sui qualcuno. «Ecco, Balaam è come una magara: viene ingaggiato dai nemici per scagliare una maledizione contro il popolo di Israele». Pausa. «Solo che poi vede il popolo e la maledizione si blocca. Gli sale in gola qualcos’altro, e gli escono parole di benedizione. Perché è Dio a ispirarlo, e Dio non maledice nessuno. Dio ha solo parole di benedizione per tutti».
Queste frasi mi fanno un effetto incredibile. In quel luogo di dolore escono con una potenza centuplicata e abbracciano anche me. Non so che cosa ha commesso chi è lì dentro, ma so benissimo chi sono io e cosa ho fatto io, tutte le mie cadute e i miei errori. E lì c’è qualcuno che sta affermando che Dio non dice male di nessuno, ma vede il bene di chiunque. Vede la potenzialità di salvezza, chiama al riscatto, spinge al futuro, e questo è proprio il senso del Natale: un bambino disarmato che risveglia la parte più vera e più pura di noi, che ci ricorda quando noi stessi eravamo piccoli e guardavamo al mondo con occhi trasparenti. Ma ciò che è più importante è che quegli occhi trasparenti non sono perduti per sempre: c’è una benedizione, c’è un dire bene che ci precede e li fa rivivere, anche in un carcere sperduto in mezzo alla Sicilia.
Nel finale dell’omelia, il sacerdote racconta la storia di due bambini, due fratelli che litigano e che si picchiano. La sera se ne vanno a letto arrabbiati, si voltano le spalle e si addormentano senza degnarsi di uno sguardo. Nella notte però scoppia un tremendo temporale: i due si svegliano, impauriti, e, a poco a poco, si voltano l’uno verso l’altro, finché si ritrovano abbracciati. Nel momento del bisogno, si riscopre una relazione autentica. Al termine della celebrazione, nel suo saluto, la direttrice del carcere riprende questa immagine con parole toccanti: «Quel bambino che si volta fa ciò che cerchiamo di fare noi operatori ogni giorno: voltarci verso di voi». Anche questo è Natale: il solo fatto che esistano nel mondo persone che si voltano, attendendo una risposta, verso coloro che il mondo non vuole vedere, perché ha paura. Coloro che una giustizia spesso affermata, ma troppo poco praticata, vorrebbe dimenticare per sempre, strappare da una società che li ritiene più un pericolo che una risorsa. Mentre la direttrice dice queste parole, mi torna in mente quanto mi ha fatto notare di recente un caro amico: nel film Avatar, gli abitanti di Pandora, per esprimere il loro affetto verso qualcuno, dicono: «Ti vedo». Ti vedo: mi accorgo di te, guardo oltre la superficie, sono aperto a un legame: anche questo vedere in profondità è il senso del Natale.
E la poesia? Questa rubrica parla di come le parole poetiche interpellino la vita di tutti noi. La poesia, qui, dov’è? Quel pomeriggio al carcere la incontro due volte. La prima è alla lettura del salmo: i salmi, del resto, sono poesie. Il salmo è il 24, del quale mi colpiscono in particolare queste parole:
Ricordati, Signore, della tua misericordia
e del tuo amore che è da sempre.
Ricordati di me nella tua misericordia,
per la tua bontà, Signore.
Quante volte ho ascoltato o letto queste parole distrattamente, come una cantilena? Ora queste parole mi penetrano dentro: ne percepisco tutta l’importanza e la verità. Perché a leggerle, emozionato, è un detenuto, che in quella Messa riceva la Cresima. Un detenuto che invoca una misericordia che lo sta raggiungendo lì, dietro le sbarre, e che non lo mollerà mai più. Una misericordia per lui, per me, per tutti. Che bella parola misericordia! La misericordia abbraccia tutte le nostre fragilità, non ci schiaccia per esse, ci ricorda che la perfezione è un’illusione e che il bisogno fondamentale di ciascuno di noi è essere amati così come siamo. Unici e irripetibili come siamo.
La seconda poesia che incontro è il canto finale della Messa: un canto non religioso. Quando parte, resto sorpreso:
In un mondo che non ci vuole più
il mio canto libero sei tu.
“Il mio canto libero” di Lucio Battisti. «Cosa c’entra con la Messa di Natale?» mi chiedo. Ma ci metto solo un istante per darmi una risposta, il tempo di altri due versi.
E l’immensità si apre intorno a noi
al di là del limite degli occhi tuoi.
C’entra perché quella Messa è dei carcerati e quel canto parla di loro, è la loro voce. Questa è la magia della poesia vera, che sia un classico o una canzone del Novecento: dare voce a chi non ce l’ha, trovare parole per chi fatica a trovarle, suonare in altri la musica che hanno dentro, oltre ogni possibile immaginazione. Non avevo mai interpretato quella canzone così. Ma ora, come in Avatar, la vedo: il mondo che non vuole più chi ha commesso reati e un canto libero che, invece, si sprigiona più forte. Il canto della dignità, canto di tutti noi, rivolto a un tu, che adesso non so più se è una donna o Dio stesso.
Nasce il sentimento
nasce in mezzo al pianto
e s’innalza altissimo e va.
E vola sulle accuse della gente
a tutti i suoi retaggi indifferente
sorretto da un anelito d’amore
di vero amore.
Alla tastiera suona un detenuto elegantissimo, composto. I suoi compagni cantano a squarciagola; il pianto diventa davvero sentimento, come affermano le parole di Battisti. Il maestro di musica, una persona piena di luce e passione, uno che crede fino in fondo a ciò che fa, suona la chitarra e intona, e tutti lo seguono.
La veste dei fantasmi del passato
cadendo lascia il quadro immacolato
e si alza un vento tiepido d’amore
di vero amore.
Il canto adesso è un urlo, fa tremare le mura della prigione, fa fremere le sbarre, come se volesse spezzare ogni limite, superare ogni barriera. Come se in quel canto profondo e potente, ma anche limpido, una innocenza dimenticata potesse rinascere, come se il quadro davvero tornasse immacolato. E anche questo è Natale. Il canto è finito. Il celebrante dice un’ultima parola: indica il presepe, grande e bellissimo, costruito dai detenuti. Mostra la capanna, arroccata in cima a una salita, e i re magi che arrancano per salire: sottolinea che la strada del riscatto è impegnativa, che accogliere l’amore non è facile. Ma noi possiamo abbracciare questa fatica e, davvero, raggiungere la meta.
Resto a contemplare il presepe, mentre le sedie vengono tolte dall’atrio e tutto torna tranquillo. Mi affianca uno dei detenuti che lo ha allestito; è giovane, ha circa trent’anni. Mi sorride timido, gli occhi pieni di una tristezza immensa, ma anche di una strana forza. Mi racconta di come hanno realizzato il presepe, costruzione per costruzione, tutte fatte a mano. Scambiamo qualche parola. Si crea una sintonia immediata. Gli appoggio una mano sulla spalla, mentre con lui guardo quei re magi in salita. Mi i sento stanco anche io, e allo stesso tempo pieno di voglia di futuro, di nuove ascese. Siamo uguali, io e quel detenuto. E anche questo è Natale. Nessun essere umano nasce cattivo. Ogni persona è un abisso e allo stesso tempo è un orizzonte. Nessuno dovrebbe essere ridotto agli errori che ha commesso, né a Natale, né mai.
Insegnante e scrittore
(15 - continua)