Mena mentre consegna i suoi doni ai poveri - .
È povero? Ha fame? Non perdere tempo, non fargli un trattato sulla povertà, togli qualcosa dalla tavola, scendi, rimboccati le maniche e corri. Ti aspettava. Porgigli il pane, non chiedergli niente, non rimproverarlo per i suoi vecchi errori – li conosce, ne prova vergogna, li maledice – ma abbozza un sorriso di comprensione. Digli “Buon Natale”, senza fretta, e se ha voglia di parlare, fermati, ascoltalo. Non aver paura di sfiorare la sua mano fredda. Chi ama sente il bisogno di dare, ed io vorrei fare, ai lettori di Avvenire, un regalo.
Vi racconto una favola, una favola vera, accaduta a Napoli. Mena è una mamma afflitta e angosciata. La sera del primo novembre, suo figlio Santo, non ancora ventenne, venne ucciso, da un minorenne, proprio nel giorno del suo onomastico. Strazio allo stato puro. Al suo funerale presero parte almeno un migliaio di suoi coetanei con il cuore a lutto e tanta rabbia. C’eravamo anche noi. Mena volle che fossi io a celebrare, un mese dopo, la Messa di trigesimo. La pur ampia chiesa non riuscì a contenere la folla di amici e conoscenti della vittima. In prima fila lei, l’altro figlio, la fidanzata di Santo. Lo Stato, la Chiesa, la scuola, le varie agenzie educative sono seriamente preoccupate. La violenza tra i giovani non tende a diminuire. Si parla, si discute, si ascoltano gli esperti, si programmano interventi, si spendono soldi. Sovente, però, si sorvola sulla verità più elementare: tutto ciò che riguarda i ragazzi chiama in causa gli adulti, a cominciare dai genitori. Non di tante parole essi hanno bisogno ma di esempi concreti che gli vengono innanzitutto dalle persone più vicine.
Durante la Messa, non riuscivo a distogliere lo sguardo da questa donna ferita alla quale, in un istante, era stato strappato il figlio. Che sarebbe stato di lei? Che piega avrebbe preso il suo dolore? Verso quale mare si sarebbe diretto il fiume della sua amarezza? Il desiderio di giustizia non deve mai tramutarsi in sete di vendetta; purtroppo, non sempre la linea di demarcazione è netta. Il rischio è grande. Quando accade, il dolore per la perdita della persona amata non trova più sollievo ma aumenta a dismisura.
Antonello è un giovane papà della nostra parrocchia. Nunzia, la mamma, morì di cancro quando lui aveva solo 14 anni. Insieme ai due fratelli più grandicelli, si prese cura del fratellino più piccolo; caparbio, non si lasciò cadere le braccia, non si pianse addosso, imparò l’arte del barbiere. Oggi gestisce un negozio per acconciature maschili molto frequentato. È un punto di riferimento, Antonello. Ha sofferto e sa che cosa vuol dire soffrire. Ha dato vita a un’associazione che si prende cura dei più poveri. Il nome che le ha dato è un programma: «Cor a cor», cuore a cuore. Non qualcosa di algido, ma contatti umani, fatti di conoscenza, comprensione, aiuti, vicinanza. Carità. Tra le tante attività a servizio dei poveri, i nostri volontari, si preoccupano di portare la cena ai senza tetto di Napoli. Quando posso, li accompagno.
Antonello e i volontari sono andati da Mena a portarle la loro solidarietà. Ma non si sono fermati. Hanno osato. Sono andati oltre. Le hanno chiesto di accompagnarli, in queste sere fredde e piovose, tra le strade nascoste della città. Ed eccola qua, questa mamma addolorata per la perdita del figliolo, sorridere mentre porge ai poveri il sacchetto con la cena e il dolce di Natale. È dando che si riceve. La fede in Dio non è un toccasana che ci toglie il dolore, ma a quel dolore dà un senso. La foto che la ritrae accanto a un fratello venuto da lontano, che non ha dove poggiare il capo, è tra le più belle che sono state scattate in questi ultimi mesi. Grazie, Mena. Grazie, ragazzi. Avevamo proprio bisogno di questa grande lezione di vita. Buon Natale.