Padre Lucio Boldrin - .
«È un giorno memorabile, ma il Giubileo non deve durare un giorno. Desideriamo che diventi occasione di cambiamento per i detenuti e per l’intera società, perché il carcere non sia più considerato uno scarto ma un luogo di riscatto. E perché si arrivi a un cambio di mentalità che deve riguardare tutti: l’uomo non è il suo errore. Se per tanta gente i detenuti sono gli ultimi, nel cuore di Dio sono i primi». Lucio Boldrin, religioso della congregazione dei padri Stimmatini, 65 anni, sacerdote da 40, dal 2019 è cappellano al carcere di Rebibbia Nuovo Complesso, dove Francesco ha aperto la Porta Santa, nella chiesa del Padre Nostro. Un gesto forte, un’altra delle provocazioni a cui ci ha abituato questo pontificato.
Nella popolazione carceraria c’è stata grande attesa per questa visita (la quindicesima in un istituto di pena), anche se per problemi logistici sono poi stati pochi quelli presenti all’apertura della Porta Santa, un’opera in bronzo su due ante: sulla destra sono rappresentate scene della passione di Cristo, sulla sinistra la Resurrezione e l’Ascensione. «Noi cappellani ci siamo messi a disposizione dei detenuti e delle loro famiglie e saremo presenti ogni mattina presso la chiesa che è vicina all’area colloqui, per chiunque desidera attraversare la Porta Santa e ottenere l’indulgenza plenaria, per chi vuole confessarsi o avere uno spazio di dialogo. Puntiamo al coinvolgimento delle parrocchie della zona nelle celebrazioni liturgiche, perché il Giubileo sia anche un’occasione di apertura al territorio».
Per padre Lucio il passaggio dalla parrocchia al carcere, cinque anni fa, ha rappresentato una svolta radicale, «un’esperienza che mi educa a guardare chi sta qua dentro per il suo valore di persona amata da Dio e non a partire dal reato che ha commesso. La visita di Francesco, per me come per gli altri tre sacerdoti presenti a Rebibbia, è una provocazione per ricordarci le ragioni della nostra missione». Il Papa è venuto come pellegrino di speranza in un luogo dove prevale la disperazione, che ha tante facce. La solitudine, anzitutto, e la mancanza di affetti: molti – in particolare gli stranieri – hanno le famiglie lontane, altri sono stati abbandonati dai parenti proprio quando avrebbero più bisogno di vicinanza. Il sovraffollamento è una piaga diffusa nel sistema penitenziario, e Rebibbia non fa eccezione: dispone di 1150 posti ma ci vivono in 1600. «È un problema drammatico che arriva a situazioni limite, come certe celle di 9 metri quadrati dove vivono fino a 6 detenuti con un unico bagno». Per un terzo degli ospiti la disperazione ha il volto della tossicodipendenza, il 30 per cento ha problemi psichiatrici e non viene adeguatamente curato. «E forse – aggiunge padre Lucio – non dovrebbe neppure stare qua, il carcere è totalmente inadeguato a gestire queste problematiche».
E poi c’è la paura del futuro: sono troppi coloro che quando escono non trovano lavoro e rischiano di tornare a delinquere, alimentando il circuito perverso della recidiva. Qualcuno usufruisce dell’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario e intraprende un percorso lavorativo all’esterno durante la detenzione, un “ponte” importante in attesa della liberazione, con impieghi in varie mansioni in bar, ristoranti, supermercati, servizi di manutenzione, cinque attualmente lavorano in Vaticano. Anche lo studio può diventare una leva di cambiamento. «A Rebibbia c’è un grosso problema di alfabetizzazione degli stranieri, ma anche tanti italiani che vengono dalle periferie di Roma non sanno leggere o scrivere correttamente, si figuri come se la cavano quando devono capire quello che c’è scritto negli atti giudiziari che li riguardano».
La speranza che accomuna tutti è un gesto di clemenza, come l’amnistia o il condono, esplicitamente auspicati nella Bolla di indizione del Giubileo. «In quel documento si chiede anche l’abolizione della pena di morte – commenta padre Lucio –. La legge italiana non la prevede, ma anche l’ergastolo in qualche modo le assomiglia e andrebbe eliminato, perché concettualmente esclude ogni possibilità di cambiamento, è una specie di pena di morte bianca. Penso a tanti ergastolani incontrati a Rebibbia che guardano alla loro detenzione come a un buco nero senza spiragli». In questi anni è stato testimone di esistenze che hanno vissuto un cambiamento interiore pur nella difficoltà delle condizioni attuali. «Il rapporto più significativo è con le persone condannate all’ergastolo per reati di mafia. Pesa come un macigno la scomunica decretata nei loro confronti da Giovanni Paolo II e ribadita da Francesco ma, come ci ha fatto notare il Papa durante un colloquio, questa misura vale per chi continua a delinquere, mentre chi sta facendo un cammino di cambiamento può chiedere di ricevere l’Eucarestia. E noi stiamo vicini a chi è su questo cammino, per testimoniare che la misericordia di Dio non viene mai a mancare».
Ci sono poi quelli che lui chiama “piccoli segni di resurrezione”, come le richieste di ricevere il Battesimo, o i percorsi di chi si avvicina nuovamente alla fede ricevuta dai genitori ma abbandonata nel corso degli anni. «Più di una volta è capitato che alla fine della Messa qualcuno è venuto a trovarmi, mi ha abbracciato dicendo “oggi mi sono sentito liberato”. Per molti però il perdono è qualcosa di inconcepibile, si sentono condannati in maniera irreparabile per il male che hanno compiuto. È fondamentale non lasciarli soli, ci vuole un lungo lavoro di condivisione e di amicizia per aiutarli a comprendere che la luce di Dio resta accesa anche quando si è convinti di essere inchiodati per sempre al buio, e che la sua misericordia ha una misura molto più grande di quella umana. In questa opera di accompagnamento sono impegnati insieme a noi sacerdoti anche diaconi e religiose e gruppi di volontari: sono le mani con cui Dio raggiunge ogni uomo, manifestando il suo amore».