Un giorno, un amico di Franz Kafka gli fece una domanda: «La speranza esiste?». Kafka avrebbe risposto: «C’è molta speranza, infinita speranza, ma non per noi». Il desiderio della speranza è un fatto ineludibile, sinonimo della vita stessa, come l’aria che respiriamo o il battito del cuore. Ma il discorso sulla speranza deve essere tutto meno che ingenuo, superficiale o immediato. Nessun ragionamento sulla speranza sta in piedi se non accetta di integrare e riflettere anche il suo contrario: la prova della disperazione. Se la speranza si sottrae al confronto con l’enigma e la drammaticità della storia, è una speranza – saremo prima o poi obbligati a riconoscerlo – che non fa per noi. Quella che fa per noi, invece, è una speranza umile; una speranza aderente alle domande sempre più grandi di cui siamo intessuti, e matura nel convivere con esse; una speranza purificata dall’esercizio di accettare che le nostre mani brillano vuote di risposte. Quella che fa per noi è una speranza che abbia la forma di quello «sperare contro ogni speranza» (Rm 4,18) di cui ci parla l’apostolo Paolo. Una speranza che, alla luce del mistero di Cristo, non è altro che una speranza crocifissa.
Mi viene in mente un testo del grande poeta brasiliano João Cabral de Melo Neto, dal titolo singolare: L’Educazione attraverso la pietra. In fondo, la questione che in esso viene posta è quella di capire come la non semplice convivenza con la pietra – un oggetto che ci sfida e resiste – possa essere illuminante per la nostra anima. Perché una pietra è una pietra: muta, inespressiva, impersonale, apparentemente incapace di espansione. E tuttavia, frequentare la pietra, ascoltare la sua morale precisa, comprendere la sua consistenza concreta può essere utile all’essere umano perché questi riesca a sillabare sé stesso e andare al di là di sé stesso. È certamente un’esperienza paradossale, ma, come insegna Kierkegaard alla nostra modernità tentata dai semplicismi immediatisti, rimuovere il paradosso equivale a cancellare dall’orizzonte umano ogni possibilità di senso. Ecco la sapienziale composizione che ci offre Melo Neto: «Un’educazione attraverso la pietra: con lezioni;/ Per imparare dalla pietra, frequentarla;/ Captare la sua voce senza enfasi, impersonale/ (dalla dizione lei comincia le lezioni)./ La lezione di morale, la sua resistenza fredda/ A ciò che fluisce e al fluire, a essere plasmata;/ Quella di poetica, la sua consistenza concreta;/ Quella di economia, il suo addensarsi compatta:/ Lezioni della pietra (da fuori verso dentro,/ Abbecedario muto) da sillabare».
L’educazione attraverso la speranza – chi l’ha sperimentata sulla propria pelle lo sa – non è poi così diversa dall’educazione attraverso la pietra. Chi attorno alla speranza fa dei bei discorsi di fiaba, idealizzati, davvero non si è ancora reso conto di cosa essa sia. Bisognerebbe combattere la banalizzazione di una speranza che, nell’agitato commercio dei giorni, si proponesse di darci tutto senza chiederci nulla. Non si accede alla speranza senza entrare in una relazione vulnerabile, totale ed esposta. Scrisse Rainer Maria Rilke: «Solo chi non esclude nulla, neanche la cosa più enigmatica, vivrà la relazione con un’altra persona come qualcosa di vivente, e attingerà sino al fondo la sua propria esistenza». Che cosa significa non escludere nulla? Significa lasciarsi alle spalle le astrazioni e condividere le esperienze reali che ci permettono di conoscere ciò che noi siamo e ciò che gli altri sono. Tra queste, certamente figurano le gioie e le tristezze che portiamo con noi, la leggerezza e il peso delle stagioni diverse, la felicità e la paura, i naufragi e i viaggi, la compagnia e la solitudine, il misterioso percorso della malattia e il nostro percorso dentro di essa, l’unità che noi siamo o non siamo capaci di cucire, il modo in cui scegliamo di cercare a tastoni la speranza invece di un’abissale desolazione che tutto inghiotte. Abbracciare la speranza significa avvicinarsi a queste esperienze radicate nel centro vivo dell’esistenza, con esse confrontarsi dando loro il tempo che è loro necessario, percorrendo un cammino di sintonizzazione al loro fianco, in una reciprocità sempre più ampia. La poeta Marina Cvetaeva, che con Rainer Maria Rilke mantenne una straordinaria amicizia epistolare, diceva: «Io non penso, ascolto. E poi cerco l’esatta incarnazione della parola». La speranza è capace di instaurare un futuro perché attraversa ad occhi aperti il cuore del presente senza sfuggire alla sua dimensione crocifiggente.
Si racconta che lo scrittore francese Fontenelle (1657-1757), un mese prima di diventare centenario e ormai in punto di morte, interrogato dal medico su come si sentisse, abbia risposto: «Sento una difficoltà di essere». È una confessione che ci aiuta a pensare, perché, tra i tanti apprendimenti che oggi ci sono richiesti, persistono delle lacune che diventano poi vergognose voragini occulte o crateri in eruzione dentro di noi. E uno di questi apprendimenti è quello della speranza. Non è raro scoprirci analfabeti della speranza; di non avere veramente imparato ad ascoltare e a coltivare la speranza cui siamo chiamati. Eppure non dovremmo dimenticare che la convivenza più autentica con il reale è determinata dalla sua presenza, e che l’intonazione della nostra vita è, da sempre, risonanza del suo crepitio acceso dentro di noi. Abbiamo bisogno di un’educazione attraverso la speranza.
Cardinale, prefetto del Dicasteroper la cultura e l’educazione