domenica 20 ottobre 2024
Parla Chiara Griffini presidente del Servizio nazionale per la tutela dei minori della Cei: l'ascolto di chi è stato tradito ha aperto una nuova via per la Chiesa italiana. Il ruolo dell'educazione
Il murale realizzato a Roma nel 2019 dallo street artist Tvboy

Il murale realizzato a Roma nel 2019 dallo street artist Tvboy - Siciliani

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La tutela dei minori dagli abusi, nella prospettiva della Chiesa, non vuol tanto dire repressione ma piuttosto educazione, formazione, consapevolezza. Lo spiega Chiara Griffini, psicologa, dal maggio scorso presidente del Servizio tutela minori e adulti vulnerabili della Cei. Appuntamento di rilievo è della Giornata di preghiera per le vittime e i sopravvissuti agli abusi del prossimo 18 novembre

Come mai avete scelto di intitolare questa Giornata “Ritessere fiducia”?

Le ricerche ci dimostrano che l’abuso sessuale accade nel cosiddetto cerchio della fiducia, potremmo dire che all’origine di ogni abuso insieme all’abuso di potere come ebbe a dire papa Francesco nella Lettera al popolo di Dio dell’agosto 2018, vi è un abuso di fiducia. E in questo cerchio vi è anche la Chiesa. Una rottura nella fiducia che non riguarda solo vittima e autore ma una comunità, in ciascuna delle sue forme e dei suoi membri. Una rottura che investe anche coloro che esercitano l’autorità nella comunità. Anche costoro sono attraversati dalla stessa domanda delle vittime, dei genitori, magari non riescono ad assumerla per ciò che tale assunzione comporterebbe: a chi ho dato fiducia? “Ritessere fiducia” è ripartire da questa consapevolezza per crescere nel promuovere la fiducia come qualità fondamentale di ogni relazione nella Chiesa, e il suo rispetto al di sopra di tutto, e sostenere coloro che ne sono stati traditi in un lento e faticoso percorso di ritessitura, perché perdere la fiducia è perdere se stessi nel dinamismo proprio dell’umano che è affidarsi e tendere ad essere affidabili e del credente che perde la fiducia in una comunità di fratelli e sorelle, oltre che la fede in un Dio che è Padre.

Chiara Griffini

Chiara Griffini - Alessia Giuliani / CPP

Le riflessioni preparate per la Giornata da alcune vittime di abusi e da alcuni genitori di ragazzi abusati presentano varie domande laceranti. Segno che la Chiesa è finalmente disponibile ad aprire il cuore con trasparenza e coraggio per tentare di dare alle vittime tutte le risposte possibili?

Le riflessioni sono frutto di un cammino che è partito dall’incontro periodico di queste vittime e di familiari di vittime con la Presidenza e la Segreteria generale della Cei. Non sono testi su commissione, sono vita condivisa nel dolore di strappi ancora presenti che hanno aperto una via per la Chiesa italiana, la via della cura ecclesiale e spirituale, richiesta da chi è stato ferito, per un cammino di conversione della Chiesa italiana. I testi rivelano non solo come le ferite non vanno in prescrizione, ma che hanno tempi di rimarginazione lunghi, non prevedibili a tavolino, che vanno oltre i percorsi di giustizia. Vorrei anche fare una sottolineatura sulla fiducia tradita non solo in chi subisce in prima persona, ma anche nei genitori e nei familiari che si trovano a convivere con il dolore e il senso di colpa, direi perpetui, del sentirsi responsabili dell’affidamento dei loro figli e delle conseguenze che ciò ha generato sulle relazioni familiari, sui figli a livello di perdita di fede, di valori a cui saldare la vita.

Nella prima riflessione preparata per la Giornata c’è una sorta di identikit dell’abusatore ecclesiale che fa paura (ne parliamo nell’articolo qui sotto). Come è possibile sospettare di una persona così?

Gli strumenti sono l’informazione che diventa formazione. Una formazione ad essere persone affidabili che ti porta a riflettere su cosa significhi dare e ricever e fiducia. Direi però anche una formazione e una vigilanza comunitaria. I modelli situazionali parlano chiaro. Urge riappropriarci del paradigma evangelico del vegliare che deve saldarsi con quello formativo. Un contesto informato e formato sa intercettare i segnali e alzare le barriere che impediscono all’abuso di compiersi. Il primo segnale su cui formare e vigilare sono i rapporti esclusivi ed escludenti, le modalità di relazione che mescolano interesse personali e di servizio, l’assenza di relazioni alla pari e di collaborazione, i “brillanti e dediti solisti”, gli indispensabili per ogni attività, le calamite da cui tutto e tutti dipendono, da cui a ben guardare si è invece usurpati e appropriati.

Di grande interesse anche il passaggio in cui si fa riferimento alla “cultura del rendiconto” su tre livelli: verso i superiori, verso i pari, verso la comunità di appartenenza”. Non si tratta di un auspicio vano?

No, non è un auspicio vano se seriamente introduciamo la parola verifica nella nostra vita ecclesiale. Spesso passiamo da una progettazione all’altra senza esserci fermati su quella compiuta. Soprattutto la domanda non è che audience abbiamo raggiunto ma come siamo stati insieme, come ci siamo relazionati gli uni con gli altri, come ci siamo garantiti la libertà di ascoltarci ed esprimerci, anche nelle critiche. Il rendiconto va inteso come il riconoscere che tutti siamo dei mandati e riceviamo un mandato che va consegnato e passato ad altri, non semplicemente come un tempo di incarico definito, ma come l’agire dentro e a nome di una comunità, nel nome di una comune appartenenza e di un dono di cui essere amministratori, non possidenti e autoreferenziali.

La rete di esperti e di operatori pastorali costruita nella maggior parte delle diocesi per accogliere e accompagnare le vittime di abuso e per diffondere una nuova cultura della generatività si sta rivelando adeguata?

Diciamo che è stata impiantata, ora serve potenziarla per un agire sempre più diffuso, per evitare che restino dei buchi, che vanificano poi il lavoro di tutti. Credo che la prima adeguatezza sia data dal numero di persone, sacerdoti, religiosi/e, laici, la maggioranza, che con competenza e passione vi si dedicano e nello stile di lavorare in équipe che progressivamente si sta diffondendo nei diversi servizi diocesani e regionali. Credo che questo stile di lavoro ha anticipato quanto sta emergendo dal cammino sinodale delle Chiese che sono in Italia, non la necessità, ma la scelta e la bellezza di lavorare veramente e concretamente insieme da parte di tutte le componenti del popolo di Dio e delle competenze in esso presenti.

Dopo il primo quinquennio del Servizio nazionale Cei per la tutela dei minori che potremmo definire di avvio, visto che per la prima volta la Chiesa italiana decideva di darsi una struttura specifica per affrontare il problema, sotto la presidenza dell’arcivescovo Lorenzo Ghizzoni, ora il nuovo quinquennio sarà quello del consolidamento. E sarà lei a guidare la struttura. Se dovesse scegliere tre obiettivi per i prossimi cinque anni quali indicherebbe?

Anzitutto la chiarificazione della vera natura e finalità del servizio, tutela come promozione e salvaguardia del bene relazionale, capace di promuovere generatività che nei suoi tre movimenti fondamentali – dare la vita, curare e lasciare andare (McAdams, 2006) – è l’opposto dell’abuso spirituale e di coscienza. Secondo, la sedimentazione, ovvero la tutela intrinseca alla pastorale, in quanto educare è tutelare. La tutela da problema emergenziale a missione permanente della Chiesa. Vorremmo promuovere una riflessione teologica ed ecclesiologica su tutela minori e adulti vulnerabili, e sull’etica del servizio. Terzo, implementare la collaborazione con la società civile per una alleanza sistemica preventiva. La Chiesa come sentinella di tutela sui minori che le vengono affidati intercettando situazioni di abusi e disagio provenienti da altri contesti, capace di bonificare legami tossici con legami di generatività sociale e spezzare catene che possono trasformare da abusati in abusatori. Lavorare in rete con tutte le istituzioni ed enti rilanciando il patto educativo globale indicato nel 2018 da papa Francesco.

Il nuovo Consiglio di presidenza che si è riunito per la prima volta nei giorni scorsi, vede anche l’ingresso di membri chiamati per la prima volta a questo incarico. Quali competenze portano?

Metodo di lavoro transdisciplinare proprio del nuovo consiglio e da esportare alle equipe dei servizi diocesani e regionali. Nuovi apporti per quanto riguarda l’associazionismo in campo educativo e in campo del contrasto e la prevenzione agli abusi online e alla pedopornografia, emergenze di questo tempo. Raccogliendo anche quanto detto dal Papa nel primo incontro nazionale dei referenti (“Non dimenticarsi dei minori abusati con i telefonini”).

In riferimento ai 613 fascicoli riguardanti altrettanti casi di abuso giacenti presso il Dicastero per la dottrina era stato annunciato un “progetto pilota” frutto della nuova collaborazione tra Cei e Vaticano. Si arriverà davvero, come annunciato, entro il 2025 a vedere qualche frutto? Perché sarebbe importante questo traguardo?

È quello che si prevede. Sarà importante anzitutto nella logica del rendere conto alla Chiesa stessa, a coloro che sono stati feriti, di ciò che è accaduto, di come si è reagito, per una ulteriore consapevolezza e conoscenza della fenomenologia ma soprattutto di partire da dati accertati per affinare sempre di più e meglio l’azione di tutela intrapresa e su tale base magari definire criteri per ulteriori ricerche affinché, partendo dall’emerso e dall’accertato, non si lasci nulla di intentato nella prevenzione e nel contrasto agli abusi.

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