
undefined - Conferenza Episcopale Italiana
Sono personalmente molto grato a padre Antonio Spadaro per averci provocato due settimane fa a pensare una “teologia rapida”; ed altrettanto ringrazio chi ha già risposto alla provocazione (da Bruno Forte a Vittorio Lingiardi, Giuseppe Marco Salvati e Giuseppe Lorizio) perché ci ritroviamo tutti a convergere sulla necessità che la teologia non si arrocchi a “predicar dalla riva”, ma abbia anzi il coraggio di “stare nella barca”, faticando a gestire le onde e le relative difficoltà.
Non c’è dubbio, infatti, che aver insieme dibattuto sull’attribuzione alla teologia dell’aggettivo “rapido”, con tutte le opportune variazioni di rapidità, velocità e attrazione, nonché gli opportuni contrappesi di lentezza, sapidità e sapienza, ci ha portato ad un chiarimento sostanziale: la teologia deve vivere come «un’arte che si sposa al contesto e al fluire della realtà». E «la memoria ecclesiale deve unirsi all’istinto per tramutarla in “intuito”, cioè in capacità di avvertire, discernere, valutare con rapidità una situazione nel suo divenire», come ha scritto padre Spadaro.
Non è una acquisizione banale in una cultura ecclesiale che spesso si rinchiude in sé stessa e nelle sue certezze dottrinali. Ma ad essa occorre dare seguito concreto, confrontandosi con la concreta fenomenologia della realtà. Una fenomenologia che rivela una pericolosa tendenza ad una collettiva indifferenza dei valori e dei comportamenti, che si realizza in una sorta di astensionismo dalla dinamica ecclesiale e sacramentale, “tralasciandola” a favore di altre più emotive attrazioni.
Si è cioè creata una sorta di “zona grigia” di credenti non presenti, il cui recupero è forse la sfida più seria che la comunità ecclesiale deve oggi affrontare, cercando di superare la disarmante coscienza di quanto la vita comunitaria in parrocchia, in chiesa, in alcuni riti collettivi tradizionali, alcuni specifici sacramenti (il battesimo e la cresima) e la stessa frequenza alla Messa domenicale, siano oggi posposti ad altre opzioni, in una collettiva propensione a rinviare, tralasciare e omettere.
Sarebbe troppo naturale e facile destinare una teologia rapida a questi fenomeni, a questi “peccati di omissione”, ma mi viene spontaneo pensare che una teologia “rapida e sapida” debba andare più in profondità prendendo atto che sotto tali fenomeni opera un grande processo storico: l’aumento della soggettività, da considerare sia nella dimensione quantitativa (la società moderna è fatta di tanti innumerevoli soggetti, e conseguentemente di un pluralismo segmentato dei comportamenti e dei valori); sia nella sua dimensione qualitativa (la società moderna è pericolosamente segnata dal primato del soggettivismo, anche etico). Ed è su queste due diverse facce di una “inaudita” e mai sperimentata primazia della soggettività, che una teologia “veloce e lenta” deve lavorare.
Sul primo aspetto ricordo che Lingiardi parla di una Dysphoria mundi, dove non c’è più spazio per egemonie culturali nelle attuali realtà complesse, ibride e mutevoli. E ciò impone un confronto costante con ogni posizione culturale o fattoriale, con una coraggiosa apertura di credito ai tanti soggetti sociali e senza sicurezze teologiche e dottrinali. Non basta più proporre una pur generosa “dottrina della Chiesa”; non basta più parlare solo ai fedeli consolidati, non basta “entrare in ascolto” e non basta neppure più aprire tavoli per convegni su temi altrui (scuola, sanità eccetera). La sfida è invece ragionare insieme, capire insieme, cambiare insieme, consapevoli che solo i grandi processi collettivi sono capaci di emozionare le varie componenti ecclesiali: la Montée Humaine di Louis-Joseph Lebret nel ’56, la Populorum Progressio di Paolo VI nel ’67, l’idea di “Promozione umana” dell’arcivescovo Enrico Bartoletti, segretario generale della Cei – messa a fuoco nel primo Convegno nazionale della Chiesa italiana svoltosi nel 1976 sul tema “Evangelizzazione e promozione umana” – rappresentarono risposte rapide e sapide alle burrasche del loro tempo, ma anche – e forse soprattutto – trasmisero il gusto, a molte componenti ecclesiali, di stare dentro ai processi, di cavalcare le onde per rimanere nella metafora di padre Spadaro.
Abbiamo bisogno di emozioni collettive, di una vita religiosa capace di passione. E ancor più dobbiamo averla di fronte alla seconda dimensione di una società ad alta soggettività: il soggettivismo etico, il segreto mestiere dell’attuale zona grigia del “tralasciare ed omettere”. Negli ultimi decenni si è affermato un imperativo del primato del soggetto, autorizzato a giudicare cosa è peccato e cosa non lo è; in fondo già Spinoza diceva che l’uomo non desidera il bene, ma chiama bene ciò che desidera. Tale imperativo comincia però ad essere in crisi e ciò comporta, per una teologia rapida, l’impegno a capire da dove nasce tale crisi (forse la coltivazione libertaria finisce per essere poco realizzante per l’individuo), a non sperare di tornare semplicemente indietro a come eravamo; a non riproporre un generico primato del “Noi”, perché cavalcando le onde è impossibile tornare indietro.
Dobbiamo saper andare oltre l’“Io”, partendo però dalla forza del sé, cavalcando il conatus essendi di ciascuno di noi, non per domarlo, bensì per farlo crescere in modo più sano, nel saper fare, nel fare bene, nel voler fare con serietà, costruendo una vita buona, non indistinta e in fondo solitaria, ma unica e collegata agli altri.
Per far questo occorre ritrovare, come Chiesa, una via di popolo, animata da slanci condivisi, per poter indicare alla società, non i “nostri” valori a cui speriamo che torni, ma una strada per crescere seguendo i “suoi” valori, magari scoprendo che in realtà sono anche i “nostri”.
sociologo, fondatore del Censis
(Centro Studi Investimenti Sociali)