mercoledì 13 novembre 2024
Parlando dell'ambito sulla comunicazione e le prassi pastorali, il teologo giudica positivamente il percorso fatto. Anche se non mancato punti critici a cui dare risposte concrete
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Dal 15 al 17 novembre si terrà a Roma la Prima Assemblea sinodale delle Chiese in Italia, una delle tappe della “fase profetica”, ultimo tratto del Cammino sinodale nazionale. Nella Basilica di San Paolo fuori le Mura si ritroveranno oltre mille delegati e vescovi per confrontarsi sui Lineamenti, il testo che raccoglie i risultati raggiunti finora e propone alcune traiettorie pratiche. La Prima Assemblea sinodale è chiamata a lavorare sui Lineamenti per poi giungere allo Strumento di lavoro, in vista della Seconda Assemblea sinodale in programma, sempre a Roma, dal 31 marzo al 4 aprile 2025. La Prima Assemblea si aprirà venerdì 15 novembre con gli interventi del cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei, e di Erica Tossani, della presidenza del Comitato nazionale del Cammino sinodale. La relazione principale è affidata all’arcivescovo Erio Castellucci, presidente del Comitato nazionale del Cammino sinodale. Pierpaolo Triani, della presidenza del Comitato, presenterà le modalità di lavoro. La giornata di sabato 16 sarà dedicata al confronto nei tavoli sinodali. Alle 15 è prevista la Lectio sull’icona biblica a cura di don Dionisio Candido, responsabile dell’Apostolato Biblico della Cei, mentre alle 18.30 è in programma la celebrazione dei Vespri e la preghiera per le vittime di abusi. Domenica 17, dopo la presentazione dei lavori dei tavoli sinodali, Zuppi e Castellucci concluderanno l’incontro, affidando quanto emerso alle diocesi. Alle 12.30 la Messa.


Il Cammino sinodale della Chiesa italiana «in questi tre anni ha evidenziato diversi aspetti critici, ma ci coglierei l’aspetto positivo», che è quello «della partecipazione e del desiderio di essere ancora parte attiva». Ne è convinto Simone Morandini, teologo e vicepreside dell’Istituto di Studi Ecumenici “San Bernardino” in Venezia, tra gli esperti chiamati dalla Cei nel Comitato del Cammino sinodale, guardando all’appuntamento che dal 15 al 17 novembre vedrà la Chiesa italiana impegnata nella sua Prima Assemblea sinodale, incaricata di fare sintesi sul Cammino finora compiuto e a predisporre uno strumento di riflessione in vista dell’appuntamento conclusivo del 2025. Con Morandini affrontiamo il primo dei tre ambiti (Comunicazione e prassi pastorali) individuati nei Lineamenti in vista dell’Assemblea sinodale.

Insomma professore non è il caso di scoraggiarsi davanti agli aspetti critici emersi?

Ripeto. Il Cammino, sia nella sua fase narrativa sia in quella sapienziale, ha offerto una ricchezza di istanze, permettendo a tutti di avere uno sguardo complessivo. Ora da quelle osservazioni siamo chiamati a costruire percorsi significativi. E il fatto che siano emerse criticità è il miglior segnale che non stiamo facendo un Cammino “rituale”, ma c’è volontà nelle nostre comunità di mettersi ancora una volta in gioco, di essere protagonisti. E queste mi sembrano dinamiche positive. E poi nella fase sapienziale sono emerse molte buone pratiche che dovrebbero trovare voce nell’ormai imminente Prima Assemblea sinodale. Un bagaglio utilissimo per quelle scelte, anche audaci come è scritto nei Lineamenti, che siamo chiamati a fare come comunità cattolica in Italia.

Tra i punti critici evidenziati, vi è quello della sensazione che “il discorso cristiano” sembra diventato “insignificante nella vita delle persone”. Uno scenario preoccupante. Ma è anche un processo irreversibile?

Penso che questa sensazione sia condivisa da tutte le Chiese presenti in Italia, anche se a livelli differenti. Una insignificanza che ha, però, formulazioni differenti tra le realtà ecclesiali del Nord e quelle del Sud. Una sensazione accentuata in una dinamica legata alla secolarizzazione dell’intera società. Ma anche in questo caso siamo chiamati a guardare le opportunità e le sfide che si presentano, cercando di rispondere al quesito di come situarsi in questo cambiamento che sembra dimenticare o marginalizzare il cristianesimo. Dobbiamo trovare - ed essere - quei “germogli del Regno”, capaci di far nascere e germogliare nuove modalità di testimonianza dentro l’attuale società. Compito non facile, certo, visto che la società stessa vive profonde crisi, intese come interrogativi a cui rispondere. Rispetto al passato viviamo in una società multietnica, multiculturale e anche con un pluralismo religioso. Direi che l’invito fatto dal Concilio Vaticano II, di saper “leggere i segni dei tempi”, dopo oltre mezzo secolo rimane quanto mai attuale in una società ancora più complessa di quella in cui si viveva ai tempi del Vaticano II.

Nei Lineamenti elaborati per la Prima Assemblea sinodale si esprime il rischio di “una divaricazione tra la cultura e la profezia”. Può aiutarci a comprendere meglio il rischio?

Sono fondamentalmente due. Il primo è rappresentato da coloro che esprimono la propria testimonianza con forza e radicalità, legandola a riflessioni teologiche. Il secondo è rappresentato da coloro che elaborano ricerche teoriche, che poi hanno necessità di collegarsi con il vissuto. Entrambe mancano di una collaborazione tra loro. Devo dire che nel nostro contesto di Chiesa italiana storicamente c’è un legame piuttosto solido tra l’azione pastorale e la teologia. Ovviamente in questo contesto storico è un legame che va rafforzato.

Un esempio concreto?

Penso al ruolo delle donne nelle nostre comunità. Un tema molto dibattuto all’interno delle nostre realtà e che anche al recente Sinodo dei vescovi ha trovato attenzione. E il dibattito non si è esaurito lì, visto che è un tema affidato a una delle dieci Commissioni che proseguono il lavoro di riflessione del Sinodo stesso. Altri esempi sono il lavoro che stiamo facendo all’Istituto San Bernardino con la rete teologica del Mediterraneo e quello di una “teologia pubblica ecumenica”. L’obiettivo resta quello di collegare una riflessione teologica sul tema con gli interrogativi concreti che sorgono da questi temi.

Nell’ambito del linguaggio e della comunicazione si è riflettuto anche sulla liturgia. Sconsolante il quadro che emerge: la nostre liturgie appaiono poco significative, poco attrattive e persino poco comprensibili nei loro gesti. Ma cosa è mancato all’interno delle comunità perché non si arrivasse a questo scenario?

Anche in questo caso invito a non generalizzare. Certo il disagio nel vivere pienamente le nostre liturgie esiste ed è diffuso. Ma accanto a situazioni in cui si fatica a cogliere i valori e il significato delle nostre liturgie, ci sono anche molte esperienze positive, in cui si cura moltissimo la predicazione, legandola in modo significativo alle letture proclamate nella Messa. Esperienze in cui si valorizzano simboli e gesti compiuti durante la Messa, in modo tale che chi vi partecipa li comprenda pienamente e diventi un soggetto attivo della liturgia e non uno spettatore. Non bisogna dimenticare, ovviamente, che la liturgia ha una sua dimensione di inattualità, intesa come collocazione del Mistero che viene celebrato. Ma a preoccupare è quando insorge una “incomprensibilità” del rito. C’è una Tradizione - quella con la T maiuscola - da far vivere attraverso la liturgia, ma essa non produce nulla se non si è capaci di renderla accessibile e comprensibile a chi vi partecipa. Buone pratiche esistono e potrebbero essere piste da seguire.

Altro punto dolente è la scarsa presenza dei giovani nelle nostre comunità, anche se qualche segnale positivo durante il Cammino sinodale c’è stato con la loro partecipazione attiva. Cosa rende così difficile alle nostre comunità l’essere attrattive verso i giovani?

I giovani ci sono e se offri loro degli spazi significativi di partecipazione sono presenti. Si pensi al tema del volontariato, ma anche a significative esperienze di preghiera o di Scuola della Parola. Sono tante le esperienze giovanili in tal senso presenti lungo la Penisola. Ma questi ambiti non sempre appartengono al tessuto sociale delle nostre comunità. Ecco forse occorre valorizzare quelle buone pratiche che consentono alle giovani generazioni di esprimere e vivere la propria soggettività di fede.

Quanto sono importanti il linguaggio e la comunicazione nell’ambito del dialogo ecumenico?

È centrale. Sia per il dialogo ecumenico sia per quello interreligioso. È importante rendere comprensibili i nostri valori e concetti ad altri che vivono in altri contesti culturali e religiosi. Non si tratta di modificare quello che la Chiesa definisce “il deposito della fede”, ma di attivare forme di espressione capaci di far comprendere all’interlocutore i nostri principi con un linguaggio legato all’oggi. Insomma la sfida è “come dire Gesù Cristo oggi”, come testimoniarlo, come rendere ragione della nostra fede nella società di oggi.

Compito reso ancora più complesso da una società che relega l’aspetto religioso alla vita privata. Una posizione a volte poco compresa da chi professa altre religioni.

Una buona pista di lavoro ce l’ha indicata papa Francesco con l’enciclica Laudato si’, strumento prezioso per il dibattito sulla nostra casa comune, sui temi che riguardano l’intera famiglia umana. A partire dalla Tradizione possiamo offrire un nostro contributo all’intera famiglia umana. Le nostre Chiese e le altre fedi sono chiamate a questa sfida.

I Lineamenti evidenziano che si può essere “stranieri” anche dentro la comunità ecclesiale, messi ai margini “per il proprio orientamento sessuale o per situazioni affettive e familiari ferite”. Un’altra sfida per la Chiesa?

Non si può nascondere che dentro le nostre comunità c’è chi vive la sensazione di essere marginalizzato o di sentirsi trattato come un fattore di disturbo. La sfida per tutti noi è quella invece di valorizzare le differenze che esistono dentro la Chiesa. Spero che su questo tema il confronto prosegua.

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