mercoledì 1 aprile 2020
Nella prima settimana di "lockdown" le chiamate ai centri antiviolenza sono crollate da 10 a 3 al giorno: le vittime hanno paura di essere scoperte o interrotte durante la richiesta d’aiuto
Lorena, strangolata dal compagno. Il dramma della convivenza forzata

Ansa

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Strangola la fidanzata dopo una furibonda lite. Il delitto è avvenuto ieri in un appartamento a Furci Siculo, in provincia di Messina. La vittima, prossima alla laurea in Medicina all’ateneo della città dello Stretto, aveva 27 anni, era agrigentina e si chiamava Lorena Quaranta. Fermato Antonio De Pace, di Vibo Valentia, infermiere e collega universitario della compagna (è iscritto al primo anno di Odontoiatria). L’omicida avrebbe chiamato i carabinieri e poi tentato il suicidio. Secondo il rettore dell’università messinese, Salvatore Cuzzocrea, si tratta di «un dramma della convivenza forzata». «Sulla violenza di genere non dobbiamo abbassare la guardia, neppure per un attimo» è il commento del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, che dice di condivedere «l’iniziativa del ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, per tenere acceso un faro sul problema invitando le vittime di maltrattamenti a denunciare, chiamando i numeri di emergenza».

Senza un intervento straordinario a sostegno dei centri antiviolenza, l’intero sistema di accoglienza delle donne vittime di maltrattamenti rischia di collassare sotto i colpi dell’emergenza sanitaria in corso. Anche in considerazione del fatto che le risorse ordinarie stanziate per il 2019, previste dal piano nazionale antiviolenza e annunciate a gennaio, non sono ancora state erogate.

Non c’è solo il problema delle donne già inserite in un percorso di tutela, che normalmente potrebbero recarsi con cadenza regolare nei presidi sul territorio e che ora sono costrette a colloqui telefonici nei pochi minuti in cui chi le maltratta si assenta da casa. Ci sono anche moltissime persone che le operatrici non conoscono ancora e che non si sono potute rivolgere a nessuno. Si lavora a ranghi ridotti e le limitazioni imposte dai decreti varati per contenere i contagi da Covid- 19 rendono difficile intervenire.

Non è possibile sapere quante siano le donne in cerca di protezione, ma gli ultimi dati disponibili all’associazione D.i.re, la rete dei centri antiviolenza, registrano 15mila richieste di aiuto in un anno (2018). Il che significa che potrebbero essere centinaia le vittime che non riescono ad accedere a un percorso di tutela.

Una settimana dopo il lockdown l’associazione ha sottoposto una sorta di sondaggio ai suoi centri. Quasi ovunque le chiamate sono drasticamente diminuite, in alcuni territori si è passati da una media di 10 al giorno a 3, ma non significa che sia diminuita anche la violenza. Quando è diventato chiaro che non era più possibile fare colloqui dal vivo, i centri hanno cercato di organizzarsi con il telefono e Internet. Ma non è facile: le chiamate vengono interrotte bruscamente e a volte sono le vittime stesse a chiedere alle operatrici di non chiamare perché non sanno gestire le emozioni al telefono e hanno paure di essere scoperte.

Per le donne non ancora in accoglienza D.i.re ha poi predisposto una lista dei contatti diretti dei centri sul territorio, così da alleggerire il carico di lavoro del centralino nazionale. Non c’era mai stato bisogno prima d’ora, ma il problema è che il numero nazionale (1522) al momento lavora con un organico ridotto. Si può stare in attesa anche per tre minuti e non ricevere assistenza perché tutte le operatrici sono impegnate. In genere, in questi casi, un messaggio registrato chiede di lasciare un contatto per essere richiamate, ma in molte non possono farlo.

L’altro grande problema causato dalla quarantena è l’impossibilità di accogliere le donne che hanno necessità di essere trasferite nelle case rifugio. «Abbiamo assoluto bisogno che i fondi stanziati per lo scorso anno vengano erogati il più presto possibile. Ma occorre anche un fondo straordinario per l’emergenza, perché non siamo in grado di accogliere le nuove richieste per le case rifugio – spiega Mariangela Zanni, consigliera di D.i.re. per il Veneto –. Chiediamo strutture ad hoc dove poter ospitare una donna in autonomia e sicurezza. Servono presidi sanitari per vittime e operatrici, oltre alla possibilità di sottoporre a tampone le donne che presentano sintomi o sono state esposte a un possibile contagio. Insomma, un protocollo dedicato che faccia fronte a tutte le attuali esigenze sanitarie».

Dei 30 milioni destinati ai centri antiviolenza, 20 vengono stanziati per la gestione ordinaria mentre altri 10 servono a progetti per l’autonomia, l’inserimento al lavoro e tutto ciò che va oltre il percorso di presa in carico in una casa rifugio. D.i.re chiede che gli eventuali fondi per il Covid-19 non vadano a erodere i 10 milioni destinati alla progettualità, oltre alla possibilità di ricevere le risorse subito, se necessario bypassando le Regioni, in modo da avere al più presto liquidita. Servirà infine un piano anche per il post emergenza. «Ci aspettiamo un’impennata delle richieste di aiuto quando il controllo esercitato dai maltrattanti si allenterà – avverte ancora Zanni –. E già successo in Cina, questo deve essere chiaro a chi ci governa».

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