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A stabilire la linea sono stati Giorgia Meloni e Giancarlo Giorgetti: sterilizzare il Def, redigerlo alla stregua di un documento neutro, tecnico, i cui numeri provengono per inerzia dalle stime dello scorso autunno, con qualche ritocco ma senza lasciare tracce della futura manovra autunnale. Una scelta ma anche una necessità: con il Pil in calo rispetto alle previsioni, e il peso del superbonus ancora da mettere nero su bianco (c’è un allarme rosso per cui a giugno Eurostat potrebbe accertare quasi 250 miliardi di spesa sommando il 110 con gli altri contributi, un fardello i cui effetti si prolungheranno per anni sui conti pubblici), al momento non si possono assumere impegni certi nemmeno sulla “semplice” proroga del taglio del cuneo fiscale e dell’accorpamento Irpef, un intervento da circa 15 miliardi. Non il massimo alla vigilia della campagna elettorale. Ma guai a fare diversamente e a scatenare, proprio a ridosso dell’eurovoto, tensioni sulle intenzioni dell’esecutivo sui conti pubblici in un quadro internazionale già flagellato dalle incertezze delle guerre. Si spiegherebbe in questo senso anche l’ipotesi di non inserire nel Def il deficit programmatico, che serve a capire i margini che il governo si riserva per la legge di bilancio. Meglio ragionare “a legislazione invariata”, come se il governo fosse uno spettatore di ciò che accade nel Paese.
Ma così non sarà, ovviamente. Perché la premier una strategia per l’autunno ce l’ha: nella maxitrattativa che riguardarà le cinque cariche apicali dell’Unione Europea, Meloni vuole inserire anche i margini di bilancio della manovra italiana. Quella «logica a pacchetto» che la presidente del Consiglio ha rivendicato mesi addietro sul Patto di stabilità, e che però non ha avuto grande fortuna, ripetuta dopo il voto europeo per far pesare il sì di Roma ai nuovi assetti comunitari.
«Le stime non si discosteranno molto da quelle della Nadef», conferma dal forum di Cernobbio il sottosegretario all’Economia Federico Freni. Correzioni ce ne saranno in senso restrittivo. Ad esempio dalla previsione dell’1,2% di Pil ne 2024 si scenderà all’1%, per uniformarsi, tra l’altro per eccesso, alle previsioni delle principali istituzionali internazionali. Nella Nadef che cita Freni come punto di partenza, il deficit per il 2025 è fissato al 3,6%, mentre il 2024 si chiuderà con un deficit quantomeno tra il 4,2 e il 4,4%. Insomma, i numeri letti così, senza l’annuncio di interventi del governo, hanno il sapore di forti restrizioni. Evitabili in parte solo se, appunto, l’Italia riuscirà a strappare dall’Ue margini aggiuntivi. Già strappare per il 2025 un deficit al 4% (comunque in forte discesa rispetto all’8% con cui si potrebbe chiudere il 2024, alla luce dell’impatto del superbonus) vorrebbe dire recuperare 6-7 miliardi, ma il negoziato che ha in mente l’esecutivo punta a 10miliardi di extradeficit. Francia e Spagna potrebbero essere alleati perché gravate dalle stesse difficoltà. Ma la partita è politica e Meloni spera di aver argomenti e numeri importanti per influenzare le scelte della prossima Commissione.
L’importante è non avere turbolenze sul Def, per ora. Anche di politica interna. E da Matteo Salvini sembrano arrivare rassicurazioni su come la Lega di lotta e di governo accoglierà un Def neutro: «Non sono assolutamente preoccupato. La nostra economia cresce più di quasi tutta l’economia europea», dice il vicepremier. Insomma anche lui sembra avere interesse a non evidenziare i timori economici del governo. E ad assecondare la linea espressa da Freni a Cernobbio: il debito «certamente» resterà sotto il 140% del Pil, dice il sottosegretario. E anche questo è un segnale. Per non sforare questo tetto, serviranno certamente tagli e risparmi. Ma meglio non dirlo in campagna elettorale e non farlo capire dal Def.