martedì 11 maggio 2021
Il presidente emerito della Consulta, ex Guardasigilli, invita ad approfondire la riflessione sulla proposta che vuole sanzionare l’omotransfobia ora all’esame del Senato
Giovanni Maria Flick

Giovanni Maria Flick - Ansa

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«C’è ancora il bicameralismo, utilizziamolo», è l’auspicio del professor Giovanni Maria Flick, sul ddl Zan. Presidente emerito della Consulta, ex Guardasigilli, e docente emerito di Diritto penale alla Cattolica e alla Luiss, il suo è un invito motivato e autorevole ad approfondire la riflessione sulla proposta che intende sanzionare l’omotransfobia approvata dalla Camera, passata ora all’esame del Senato. Un’opportunità di maggiore approfondimento da non perdere, per Flick. «Senza rifugiarmi in tecnicismi per evitare di affrontare la gravità del problema di cui si discute, non voglio viceversa farmi guidare da nessuna visione politico-ideologica aprioristica che condizioni il mio discorso. Mi sembra che la proposta di legge che si sta discutendo susciti un punto interrogativo circa le definizioni utilizzate, ma anche un errore tecnico pericoloso».

Partiamo dal punto interrogativo.
Non è il mio compito proporre l’ennesima soluzione miracolistica che risolva il problema, né voglio inserirmi nella radicalizzazione che segna questa discussione, come già accaduto in campi affini a questo, come ad esempio nel fine vita. Ma dobbiamo al più presto affrontare il tema della rilevanza del "sesso" come fattore di pesantissima discriminazione e l’esigenza della sua tutela.


«Fra i divieti di discriminazione la Costituzione cita
il "sesso", perciò c’è una lacuna nella legge Mancino.
Ma sarebbe più logico, oggi, ampliare tale definizione»

Dell’orientamento sessuale?
Sto alla Costituzione, che - al pari della razza, della lingua, della religione e delle opinioni politiche - testualmente vieta che il "sesso" possa costituire una motivazione di diseguaglianza e di diminuzione della pari dignità sociale. La legge Mancino del 1993 ha ratificato la Convenzione dell’Onu in tema di discriminazioni, ma né quest’ultima né la legge tengono conto del fatto che la nostra Costituzione, come detto, indica il sesso come primo fra i possibili motivi di discriminazione.

Una lacuna da colmare, quindi?
Direi di sì, per via di quella Convenzione che a monte, parla di razza, nazionalismo, etnia e religione, ma non comprende - al pari della legge Mancino a valle - il fattore sesso in precedenza già previsto dalla nostra Carta. Una lacuna da colmare il più presto possibile di fronte al vortice dei social e alla moltiplicazione di casi che possono dar luogo, come vediamo quotidianamente, a provocazioni o discriminazioni di ogni tipo. Con un confine che si fa sempre più labile fra violenza della parola e violenza dei comportamenti, cosicché il femminicidio è diventato una notizia di cronaca abituale. E la pandemia, con la chiusura della donna in casa e il carico che si è assunta della famiglia, ha aumentato il problema, frustrando in parte il faticoso percorso che si stava compiendo per il raggiungimento di un’effettiva parità sociale fra donna e uomo.

Quali sono i dubbi?
Mi chiedo se sia giusta la scelta del legislatore di definire il sesso come una realtà unicamente biologico/anagrafica, che non includa esplicitamente nella definizione anche la componente affettiva e relazionale. Quella definizione la ritengo - come molti altri - ormai superata, anche alla luce delle discussioni che hanno accompagnato le vicende e i percorsi di cambiamento di sesso. E allora mi chiedo se, dopo aver definito restrittivamente il sesso nella legge, sia giusto ora inserire alcune proiezioni del "sesso", o delle manifestazioni della sessualità del singolo, richiamando termini che il legislatore ha utilizzato per altre finalità. Il "genere", ad esempio, viene preso in considerazione soprattutto la disciplina elettorale; l’orientamento sessuale viene considerato per lo più in materia di lavoro e di privacy; l’identità di genere è emersa invece in relazione alle normative sull’immigrazione e sul carcere. Tutti contesti diversi rispetto a quelli che qui si vuol perseguire. Mi chiedo allora se sia logica la scelta, da un lato, di tenere la definizione di sesso in margini troppo riduttivi, per poi pensare di integrarla attraverso una serie di autonome previsioni che si vorrebbe far diventare elementi costitutivi del reato; sarebbe più logico e più semplice parlare di sesso in tutte le sue manifestazioni ed espressioni personali.


«C’è poi un errore tecnico grave: vengono fatti salvi
i liberi "convincimenti ed opinioni".
Solo su questo punto? Per gli altri aspetti
tutelati l’articolo 21 della Carta non vale?»


Che rischi vede?
Quel che dovrebbe emergere è che il sesso è un campo della sfera personale e relazionale che non può diventare in nessun modo motivo di discriminazione. C’è il rischio, così, invece, di rendere meno comprensibile la norma, mentre per le norme penali, anche ai fini della loro efficacia, la comprensione è requisito essenziale. Ma c’è anche il rischio di mettere in pericolo la "tipicità", ossia l’individuazione precisa, della norma, che è garanzia fondamentale richiesta per quest’ultima. Inoltre c’è il rischio ulteriore di arrivare, attraverso a troppi concetti, a una dilatazione dell’ambito di interpretazione del giudice. Con la conseguenza, io temo, di creare un pericoloso divario far le giuste intenzioni e gli effetti originati dalla formulazioni della norma e dalle sue definizioni.

Tutto ruota intorno alla definizione costituzionale di "sesso".
Le faccio un esempio. La Costituzione parla di "paesaggio", ma questo non ha impedito, nel tempo, di interpretare al termine in un’accezione più ampia e adeguata, per arrivare alla più attuale definizione di ambiente ed ecologia. Invece, per il "sesso", frammentare il concetto per individuare elementi costitutivi di un reato facendo riferimento a definizioni usate ad altri fini, può non essere la soluzione giusta. Si tratta, a mio avviso, di una sfera in cui lo Stato - ferma restando la tutela contro le discriminazioni - deve rimanere estraneo, per evitare che, anche senza volerlo, si arrivi al controllo su una materia che - con i soli i limiti degli illeciti penali - deve rimanere tutta nella sfera della libertà dell’individuo. Si rischia di dar luogo a una sorta di "io ti tutelo se" che finirebbe per ridurre la libertà in questo campo, anche se l’intenzione al contrario è quella di estendere tale libertà.

E qual è l’«errore tecnico pericoloso»?
Quello di restringere la portata del reato solo a questa forma di discriminazione e non alle altre. Non, ad esempio, per la religione e la razza. Quando nella norma si dice che «sono fatte salve le libere espressioni di convincimenti e opinioni», mi chiedo: e nei casi di discriminazione provocati da altri fattori? Lo stesso dicasi per le «condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee»: le condotte legittime per definizione non possono costituire reato. Sono quarant’anni che lo sostiene la dottrina in attuazione dell’articolo 21, che non mi pare quanto meno pretenzioso ripetere in questa sede. Occorre piuttosto applicarlo.

Come se ne esce?
Studiando e verificando quale sia la soluzione più idonea. Evitando quella, comoda, di ricorrere ancora una volta alla legge Mancino come contenitore per ogni occasione, snaturando così l’originario ambito della sua applicazione.

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