Un silenzio lungo quasi mezzo secolo ha avvolto la storia dell’ultimo sopravvissuto della strage nazista di Treuenbrietzen. Il 23 aprile 1945, nel lager poco distante da Berlino dove il Terzo Reich produceva munizioni, gli uomini della Wehrmacht fucilarono 130 soldati italiani. «Ci fecero camminare a lungo per scappare dai russi che erano arrivati al campo due giorni prima, poi ci costrinsero a scendere in una cava di sabbia che era già piena di cadaveri, e ci spararono addosso».
Mentre ci racconta la sua storia, lo sguardo di Antonio Ceseri si vela di commozione. Fiorentino, classe 1924, all’epoca poco più che ventenne, Ceseri rimase miracolosamente illeso perché i corpi dei suoi compagni gli fecero da scudo e lui, con la sua corporatura minuta, restò sepolto da quei corpi sanguinanti per tutta la notte, senza che i tedeschi se ne accorgessero. Dei tre superstiti di quella barbara e immotivata esecuzione è l’unico tuttora rimasto in vita, ma la sua storia terribile è rimasta sepolta dentro di lui per lungo tempo. Sono dovuti passare 45 anni, prima che decidesse che era arrivato il momento di raccontarla.
Da allora ha iniziato a portare nelle scuole la sua incredibile testimonianza, che è stata ricostruita anche nel libro In silenzio di Mario Cristiani, recentemente uscito per Giunti (pagine 312, euro 14,90). Ceseri è uno degli oltre 600mila internati militari italiani – i cosiddetti Imi –, quei soldati che dopo l’armistizio del 8 settembre 1943 dissero «no» ai tedeschi e ai fascisti e furono per questo deportati nei campi di lavoro forzato in Germania.
Almeno 50mila di loro non avrebbero più fatto ritorno a casa. Ma la memoria collettiva italiana ha tardato a fare i conti con questa tragedia, riconoscendola con grave ritardo appena una decina d’anni fa, con una medaglia conferita dall’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. A lungo gli Imi sono stati considerati dei traditori, degli “imboscati” – così riporta testualmente anche il foglio matricolare di Ceseri –, senza che nessuno riconoscesse il valore del loro rifiuto e le sofferenze patite nei campi di lavoro dove furono privati dello status di prigionieri di guerra, torturati, deportati, uccisi.
«Ci chiesero se volevamo tornare in Italia per combattere per la Repubblica Sociale e io mi rifiutai, come la maggior parte dei miei compagni. Non volevamo combattere dalla parte dei tedeschi. E lo rifarei ancora oggi», assicura Ceseri, che nonostante l’età ha conservato uno spirito straordinario e una memoria di ferro che gli consente di ricordare ogni dettaglio della sua incredibile vicenda.
Perché ha aspettato così tanto tempo per raccontare quei fatti?«Fu un episodio preciso a bloccarmi. Quando tornai in Italia, nel settembre del 1945, mi presentai alla Capitaneria di Porto di Livorno e raccontai tutto, ma l’ufficiale di turno mi guardò annoiato e mi rispose “ne hanno ammazzati tanti in Italia, cento più o cento meno cosa vuole che cambi?”. Quelle parole mi ferirono talmente che da quel momento in poi decisi di tenere tutto dentro di me, decisi che non avrei raccontato niente neanche ai miei amici più intimi. Solo la mia famiglia ne era al corrente. Poi, intorno al 1990, decisi di raccontare tutto e la mia testimonianza servì anche a individuare finalmente il posto preciso dov’era stata compiuta la strage».
Eppure da allora, ogni anno, in occasione dell’anniversario della strage, è tornato a Treuenbrietzen.«Sì, sentivo il bisogno di tornare sul luogo della fucilazione, anche per onorare i miei compagni che sono morti lì. Ci sono andato ogni anno, dal 1945, superando mille difficoltà, persino negli anni del Muro di Berlino e della Guerra fredda. A chi mi chiedeva cosa andassi a fare tutti gli anni a Berlino in aprile raccontavo che dovevo incontrare una persona, così nessuno sospettava niente di quei miei viaggi ricorrenti. Sono mancato per la prima volta soltanto l’anno scorso, mi è dispiaciuto molto, ma per motivi di salute non sono riuscito a partire».
Il libro rivela che il suo ingresso nell’esercito non fu una scelta ma nacque da un atto di ribellione.«Avevo appena compiuto diciannove anni e come tutti i sabati ci facevano marciare sui lungarni, a Firenze, per il cosiddetto Sabato fascista, durante il quale era obbligatorio indossare la camicia nera. Quel giorno di febbraio del 1943 ci andai ma senza camicia nera, non la sopportavo proprio. Un gerarca mi chiese perché non me l’ero messa e io gli risposi che mia madre non aveva avuto tempo di lavarla. Non era vero. Ne nacque un diverbio, lui mi rimproverò duramente e mi tirò uno schiaffo, allora io ebbi una reazione istintiva, e per la rabbia e l’umiliazione gli sputai addosso. Per punirmi mi arruolarono subito e mi spedirono al fronte, in Marina, in anticipo sulla mia classe di leva. Qualche mese dopo ci fu l’Armistizio dell’8 settembre, io mi trovavo a Venezia quando l’arsenale fu occupato dai tedeschi. Ci presero prigionieri e ci trasportarono in Germania nei carri bestiame. Cinque giorni e cinque notti di viaggio, senza cibo. All’arrivo ci chiesero se volevamo aderire alla Repubblica di Salò, in quel caso ci avrebbero rimandati in Italia. Ma io mi rifiutai, non ci pensavo neanche, non volevo tornare a combattere per Mussolini. Così finii a Treuenbrietzen, a lavorare in una fabbrica di munizioni per armi leggere».
Come ha fatto a salvarsi dal massacro?«I tedeschi ci misero in fila in quel fossato e iniziarono a spararci dall’alto verso il basso. Io ero al centro della fila, in mezzo a tutti gli altri. Caddi a terra e i corpi dei miei compagni uccisi mi coprirono. Ancora oggi, di notte, ricordo tutto, rivedo tutto, sento il rumore di quegli spari che non finivano mai. Poi ci credettero tutti morti e ci ricoprirono di terra. Ero convinto che sarei morto soffocato, invece si mise a piovere e mi salvai. Quando mi rialzai, molte ore dopo, all’alba, mi accorsi che insieme a me erano sopravvissuti anche il mio amico Edo, col quale da allora siamo rimasti sempre in contatto, e un altro compagno. Adesso anche loro due non ci sono più. Tornai in Italia più di quattro mesi dopo, il 12 settembre del 1945, ma prima di congedarmi mi fecero fare altri otto mesi in Marina. Mi mandarono a sminare il tratto di mare davanti a Civitavecchia. Per fortuna mi imbattei in un ufficiale molto comprensivo che capì la mia situazione e mi esentò da tutto, facendomi fare soltanto il passeggero su una nave militare».