giovedì 3 aprile 2025
Allo scrittore spagnolo Javier Cercas la Santa Sede ha chiesto di seguire la visita di Francesco in Mongolia e di scrivere un libro-reportage
Papa Francesco a Ulan Bator durante il viaggio del 2023

Papa Francesco a Ulan Bator durante il viaggio del 2023 - Ansa/Andrew Medichini

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Pubblichiamo un brano estratto dal primo capitolo del romanzo Il folle di Dio alla fine del mondo (Guanda, pagine 464, euro 20,00) nel quale lo scrittore spagnolo Javier Cercas racconta il suo viaggio in Mongolia insieme a papa Francesco. L’autore presenterà il libro - pubblicato in contemporanea in Italia, Spagna e nei paesi dell’America Latina - oggi a “Letterature. Festival internazionale di Roma” nella sezione Anteprime: alle 19 presso il Teatro Studio Borgna dell’Auditorium Parco della Musica dialogherà con i giornalisti Aldo Cazzullo e Sabina Minardi. Il 5 aprile alle ore 17.00 a Firenze, Libreria Giunti Odeon Cercas dialogherà con Dom Bernardo Gianni.

È così eccezionale che il papa faccia un viaggio alla fine del mondo? È così strano che visiti un paese della periferia o di ciò che di solito chiamiamo periferia? Un paese della nostra periferia religiosa, perché la Mongolia è una società a schiacciante maggioranza buddista e con una minuscola minoranza cattolica, ma anche della nostra periferia politica e geografica, perché la Mongolia è un paese lontano dai grandi centri di potere e orfano di rilevanza politica, economica o geostrategica, tranne per il fatto di trovarsi incastrato fra due imperi, quello russo e quello cinese, che se lo sono disputato per secoli?

La prima volta che papa Francesco è uscito da Roma è stato per visitare l’isola di Lampedusa. Poco dopo essere stato eletto 266° Sommo Pontefice della Chiesa Cattolica, alle sette e cinque di sera del 13 marzo 2013, al termine di un conclave durato un po’ più di ventiquattr’ore, che aveva richiesto cinque votazioni dei membri del Collegio Cardinalizio, il papa aveva letto su un giornale che le spiagge di quel pezzo di terra italiana avevano ricevuto molti degli oltre venticinquemila cadaveri di emigranti morti negli ultimi dieci anni nel tentativo di attraversare i centotredici chilometri scarsi che le separano dalle coste africane, fuggendo dalla fame, dalla miseria e dalle guerre. L’8 luglio, quattro mesi dopo, Francesco ha celebrato un’eucaristia di massa nello stadio dell’isola e, rivolgendosi ai presenti dietro un altare costruito con il legno di uno dei barconi naufragati e reggendosi con una mano lo zucchetto per non farselo portare via dal vento, ha domandato: « Chi è il responsabile di questo sangue?». Poi ha denunciato quella che ha definito « la cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri », ha messo in guardia contro «la globalizzazione dell’indifferenza» e ha chiesto « la grazia di piangere sulla nostra indifferenza, di piangere sulla crudeltà che c’è nel mondo, in noi, anche in coloro che nell’anonimato prendono decisioni socio-economiche che aprono la strada a drammi come questo ».

È stata una dichiarazione di princìpi in piena regola: il primo papa latinoamericano, il primo papa chiamato Francesco, il primo papa gesuita iniziava il suo mandato denunciando urbi et orbi gli abusi commessi dai ricchi e dai potenti contro i poveri e gli indifesi. «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra » aveva detto Gesù Cristo, e il papa avrebbe potuto ripeterlo in quel viaggio inaugurale: oltre che una dichiarazione di princìpi, il discorso di Lampedusa era una dichiarazione d’intenti. Quello era il suo primo viaggio; di nuovo: è così strano l’ultimo? A maggio del 2023, dopo i primi dieci anni di pontificato, Francesco aveva fatto quarantuno visite apostoliche in sessanta paesi; non e` un numero eccezionale. Paolo VI, nella seconda metà del XX secolo, era stato il primo pontefice a uscire dall’Italia dal 1809, ma aveva visitato soltanto nove paesi. Quelli successivi sono stati papi giramondo: durante i suoi venticinque anni di papato, Giovanni Paolo II ha visitato centoventinove paesi; durante i suoi otto anni di papato, Benedetto XVI ne ha visitati ventitré. Nel caso di Francesco, la cosa più vistosa non è il numero di paesi, ma il loro nome. In ordine cronologico: Brasile, Turchia, Francia, Albania, Corea del Sud, Giordania, Palestina e Israele, Uganda e Repubblica Centroafricana, Kenya, Cuba e Stati Uniti, Ecuador, Bolivia e Paraguay, Bosnia Erzegovina, Sri Lanka e Filippine, Svezia, Georgia e Azerbaigian, Polonia, Armenia, Grecia (Lesbos), Messico, Myanmar e Bangladesh, Colombia, Portogallo, Egitto, Paesi Baltici, Irlanda, Svizzera, Cile e Perù, Thailandia e Giappone, Mozambico, Madagascar e Mauritius, Romania, Bulgaria e Macedonia del Nord, Marocco, Emirati Arabi Uniti, Panama, Cipro e Grecia, Ungheria e Slovacchia, Iraq, Bahrein, Kazakistan, Canada, Malta, Congo e Sud Sudan, Ungheria. Un fatto richiama immediatamente l’attenzione in questo elenco eteroclito: la scarsità di paesi centrali nella visione occidentale del mondo; l’abbondanza di paesi che, per motivi diversi, di solito consideriamo periferici.

Il fatto è eloquente: il concetto di “periferia” è capitale nel pensiero di Francesco. In un discorso pronunciato di fronte ai cardinali riuniti in pre-conclave il 9 marzo 2013, quattro giorni prima che lo eleggessero papa, Francesco ha affermato che «la Chiesa è chiamata a uscire da sé stessa e andare nelle periferie, non solo geografiche, ma anche nelle periferie esistenziali: dove albergano il mistero del peccato, il dolore, l’ingiustizia, l’ignoranza, dove c’è il disprezzo dei religiosi, del pensiero, e dove vi sono tutte le miserie ». A quelle due periferie, quella geografica – i centri lontani dalla metropoli – e quella religiosa – i luoghi dove Dio e` un Dio assente, un Deus absconditus –, Francesco ne avrebbe aggiunta ancora un’altra: la periferia sociale, il luogo dei diseredati della terra. Questa triplice periferia è il nucleo della Chiesa di Francesco. «Se la Chiesa si disinteressa dei poveri – ha dichiarato nel 2020 –, smette di essere la Chiesa di Gesù e rivive le vecchie tentazioni di trasformarsi in un’élite intellettuale o morale». Così, per Francesco, la Chiesa deve allontanarsi dal centro, da Roma e dal Vaticano e dal pomposo cerimoniale della burocrazia ecclesiastica. Ci sono due immagini opposte della Chiesa, proclama questo papa delle intemperie e delle periferie, «la Chiesa evangelizzatrice che esce da sé, e la Chiesa mondana che vive in sé, di sé, per sé». La seconda immagine è catastrofica, pensa Francesco; la prima, redentrice: perciò Francesco, che una volta voleva fare il missionario, rivendica l’impeto missionario della Chiesa, la sua vocazione di «andare incontro all’altro nelle periferie, che sono luoghi, ma soprattutto persone bisognose».

Non si può dire che, almeno su questo punto, Francesco non dia l’esempio. Appena prima di accedere al papato, quando era arcivescovo di Buenos Aires, Bergoglio era molto meno conosciuto nei quartieri a nord della città, dove prospera la classe alta e media – La Recoleta, Palermo, Belgrano o Olivos –, che nelle cosiddette villas miseria, i quartieri bisognosi della periferia dove passava i fine settimana a passeggiare, tenere discorsi, confessare, entrare nelle case, mangiare, bere e intrattenersi con gli abitanti; frutto di quella frequentazione, nell’agosto del 2009 Bergoglio ha creato un organismo che si occupa di portare aiuto nei quartieri poveri: il Vicariato episcopale per la pastorale delle Villas de Emergencia. Così si spiega perché, all’epoca, il primo coordinatore di quell’organismo assistenziale, padre Di Paola, affermasse che per il futuro papa «il centro di Buenos Aires non è plaza de Mayo, dove risiede il potere, ma le periferie, i dintorni della città»; si spiega anche che, pochi mesi prima di essere eletto papa, Francesco dichiarasse che il problema della Chiesa era l’essersi chiusa in sé stessa, l’essere diventata pigra, autocompiacente e mondana, e che quell’adagiarsi nelle comodità l’aveva portata al disincanto. « Teniamo Gesù legato in sacrestia», aveva proclamato Bergoglio. Bisogna slegarlo, diceva, bisogna tirarlo fuori da lì e portarlo nei sobborghi, l’unico posto che non soltanto permette «di vedere il mondo così com’è», ma anche di « trovare un futuro nuovo ». Questo è il discorso di rinnovamento che nel 2013 Bergoglio incarnava nella Chiesa, lo stesso che i cardinali hanno promosso facendo sedere lui sul soglio di san Pietro: nel 2013 Bergoglio era il leader della Chiesa nell’America latina, un continente periferico dove il cattolicesimo stava trovando il suo nuovo futuro; prova ne è che all’epoca contava il quarantuno per cento del totale dei cattolici: 483 milioni su un miliardo e duecento milioni. Forse nessuno era più consapevole delle ragioni della sua elezione a papa che lo stesso Bergoglio, e perciò le prime parole che pronunciò dal balcone della basilica di San Pietro sono state: «Fratelli e sorelle buonasera, voi sapete che il dovere del conclave era di dare un vescovo a Roma e sembra che i miei fratelli cardinali siano andati a prenderlo alla fine del mondo, ma siamo qui». Avrebbe potuto anche dire: sono andati a prenderlo in periferia. Perciò per papa Francesco il viaggio in Mongolia non è un’eccezione: è la norma. Francesco va in Mongolia per trovare un futuro nuovo e per vedere il mondo così com’è dall’unico posto da dove a suo giudizio lo si può vedere: dalla periferia, dalla fine del mondo. Francesco va in Mongolia per continuare a essere Francesco.

© Javier Cercas 2025/© Ugo Guanda Editore/Gruppo editoriale Mauri Spagnol/Traduzione Bruno Arpaia

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