
La scrittrice Fatin Abbas - Herby Sachs
L’Africa plurale: sotto questo titolo - venerdì presso il Fondaco dei Tedeschi – la scrittrice Fatin Abbas (Sudan - Stati Uniti) e il saggista e romanziere El Hadj Souleymane Gassama, noto come Elgas, (Senegal - Francia) converseranno a Incroci di civiltà, Festival Internazionale di letteratura a Venezia. Fatin Abbas è docente di scrittura creativa al Massachusetts Institute of Technology e al Bard College di Berlino; autrice nel 2024 di Ghost Season, un romanzo basato sull’esperienza personale come collaboratrice di un’associazione non governativa al confine fra Sudan settentrionale e meridionale, in cui viene ritratta la vita di un villaggio sconvolto dalla sanguinosa guerra civile fra il governo di Khartoum e le forze ribelli. L’autrice è ospite a Venezia dell’editore Wetlands (progetto editoriale dedicato ai temi della sostenibilità sociale e ambientale e alle sfide dell’Antropocene) e ha realizzato per lo stesso Black Time. Scritti sull’invisibile (pagine 96, euro 16,00) nella collana afterwords, curata da Maaza Mengiste, dedicata ai giovani intellettuali africani e della diaspora. Black Time è una meditazione che nasce dal contatto tra la scrittrice e la città di Venezia nel susseguirsi di calli, isole, chiese e mostre, attraverso i quali la città diventa un portale per riflettere su grandi temi contemporanei. Ed è di questi che abbiamo dialogato con Abbas.
Uno dei temi del suo libro è il senso del tempo, nelle diverse dimensioni geografiche e culturali.
«Da un lato, abbiamo un’idea del tempo come misura oggettiva di ore, minuti, secondi: una progressione lineare di eventi. Il capitalismo rafforza questo concetto perché si basa molto sulla produttività lineare, rapida ed efficiente delle merci. Ma il tempo è anche vissuto in modo soggettivo e dipende dal contesto culturale: cambia a seconda del luogo in cui ci si trova e delle persone con cui ci si trova. Per esempio, vivo il tempo in modo diverso quando sono in Sudan, dove il senso del tempo è più lento e si concentra sulla costruzione di legami sociali e di comunità piuttosto che sulla produzione di beni da consumare».
A questo proposito scrive: «Avere l’opportunità di essere in Italia e di “staccare la spina” dalle notizie è stato un privilegio». Cos’è per lei la libertà e quali sono i modi per “staccare la spina” dalla tragedia delle notizie quotidiane?
«Libertà significa poter vivere una vita sicura, in comunità con la famiglia e i propri cari, una vita che permetta di soddisfare i propri bisogni primari. Libertà è svolgere un lavoro significativo. Queste cose sono semplici, ma purtroppo inaccessibili a un gran numero di persone in tutto il mondo a causa di conflitti, povertà, cambiamenti climatici, patriarcato e sfruttamento capitalistico. Per quanto riguarda il modo di convivere con le notizie, penso si debba convivere con esse rifiutando di diventare desensibilizzati e cercando di fare qualcosa, per quanto piccolo, che sfidi le condizioni di oppressione e disuguaglianza che guidano la maggior parte delle guerre. Anche se viviamo in relativa sicurezza in Europa, siamo collegati a coloro che soffrono a causa della violenza in altre parti del mondo. È per un colpo di fortuna che noi siamo qui e loro lì, ed è importante mantenere il senso di questa connessione e della nostra vulnerabilità condivisa, e agire di conseguenza».
Un altro tema del suo libro è la migrazione. Cosa significa per lei sentirsi a casa e cosa significa – cito le sue parole – «tornare al luogo d’origine»?
«Sentirmi a casa significa stare con e intorno alle persone che amo, agli amici e la famiglia. Mi sento a casa anche nella letteratura e nell’arte, perché penso che le arti siano lo spazio in cui troviamo visioni radicali di “casa” che possono abbracciare tutti e fare spazio a tutti. Mi sento a casa nella natura e sono legata a certi paesaggi. Sono cresciuta a New York, la città più grande in cui si possa crescere, ma sempre più spesso trovo ispirazione e senso di casa in ambienti naturali che mi ricordano il legame e la parentela con il mondo naturale. Per quanto riguarda il ritorno a un luogo d’origine, penso che in un certo senso possiamo decidere cosa rivendicare come luogo d’origine. Io rivendico il Sudan non solo perché ho radici culturali lì, ma perché si trova nella “periferia” globale, è un Paese che è stato colonizzato, sfruttato, trascurato e che attualmente si trova in uno stato di guerra invisibile a molte persone in Occidente. Rivendicando lo rimetto al centro».
Crede che a volte, per trovarsi, si debba imparare a perdersi?
«Perdersi può essere un modo molto produttivo per trovare sé stessi. È qualcosa con cui mi confronto continuamente come scrittrice. È quasi impossibile scrivere un libro senza perdersi da qualche parte lungo il percorso. Quando scrivo devo fare deviazioni, tornare indietro, cercare una strada che potrebbe essere diversa da quella che avevo immaginato. Con Black Time non avevo idea di cosa avrei scritto. Sono arrivata a Venezia aperta e ho permesso al processo di vagare. Così, perdendomi a Venezia, ho trovato il libro».
Lei dice – a proposito di nuove generazioni – che è in atto un cambiamento di valori, e a questo proposito parla anche di patriarcato.
«Sì, vedo giovani attivisti come Greta Thunberg e il movimento Fridays for Future e sono colpita da come si battano per il pianeta e la giustizia sociale. Lo vedo anche nel movimento studentesco globale per la Palestina, che ha riunito giovani di tutte le nazionalità, culture, fedi e prospettive per lottare per la fine del genocidio a Gaza e, più in generale, per un mondo più giusto. Il patriarcato è un problema a livello globale e negli ultimi anni abbiamo assistito alla rinascita di movimenti femministi – guidati da giovani donne – che lo stanno sfidando. In Sudan, le giovani donne sono state in prima linea nella rivoluzione di dicembre 2018-2019, che ha portato alla caduta della dittatura trentennale di Omar al-Bashir nel 2019. Si trattava di una dittatura che esercitava un controllo e una punizione estremamente oppressivi su donne e ragazze. Questi giovani stanno tracciando i punti tra il capitalismo, il colonialismo, il complesso militare-industriale e la distruzione del pianeta. Praticano la solidarietà. Privilegiano valori che affermano la vita».
Nel libro scrive: «Uno degli aspetti più insidiosi del razzismo sono i sottili atti di esclusione». Cosa serve per un concreto cambiamento?
«Spero le cose migliorino, ma al momento stanno peggiorando. Lo vediamo nell’ascesa della politica e dei movimenti di estrema destra in tutto il mondo e nella normalizzazione del pensiero e delle politiche suprematiste che si basano sulla disumanizzazione di alcuni gruppi e comunità. In definitiva, il razzismo è uno strumento di distrazione molto utile. Per cambiare le cose abbiamo bisogno di un sistema economico più equo e giusto a livello globale. Inoltre, è necessaria una maggiore educazione».