martedì 14 febbraio 2017
Franceschini l’ha proposto per il Pantheon, in Italia sono una settantina, tutte di grande importanza artistica. Chi e perché sceglie di chiedere il pagamento? E quali sono le conseguenze?
Roma: Santa Maria ad Martyres, ossia il Pantheon, nel 2016 è stata vista da 7,4 milioni di persone.

Roma: Santa Maria ad Martyres, ossia il Pantheon, nel 2016 è stata vista da 7,4 milioni di persone.

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La proposta lanciata dal ministro Franceschini di introdurre un biglietto di ingresso al Pantheon (visitato nel 2016 da 7,4 milioni di persone), edificio cardine della cultura occidentale e luogo simbolico della storia italiana, ha riportato l’attenzione sul tema delle chiese a pagamento. Se nella percezione di molti turisti è soprattutto o “solo” un tempio antico, Santa Maria ad Martyres è pur sempre un luogo di culto cristiano. La basilica sarebbe la prima dotata di ticket nella capitale, dove la scelta del Vicariato di Roma è di non far pagare l’entrata nelle chiese. Un tema complesso, in cui entrano in campo molte voci in fase di valutazione e che ha altrettante conseguenze una volta attuata la scelta, con un campo che va dalla necessità di gestire il bene architettonico alla fruizione da parte della comunità e del pubblico.

Quanti sono in Italia i luoghi di culto con ingresso a pagamento? I dati parlano di 75 monumenti. Un goccia nella totalità del patrimonio: il censimento che le Diocesi stanno realizzando conta a oggi 64.431 edifici, a cui se ne aggiungono diverse migliaia di diversa proprietà: dello Stato – oltre 700 chiese di interesse storico-artistico afferiscono al Fondo Edifici di Culto del ministero degli Interni, nato dopo l’Unità con le soppressioni ecclesiastiche – e di Comuni ma anche di confraternite, fabbricerie, istituti religiosi, privati. Si stimano 95mila luoghi di culto tra chiese, cappelle, santuari. Ma bisogna osservare che a pagamento sono alcuni dei principali monumenti, e in certi casi si arriva quasi a coprire il patrimonio di maggior pregio di una città.

Tra le cattedrali, ad esempio, ai turisti è richiesto un biglietto a Milano, Siena, Orvieto, Siracusa e Monreale. A Firenze sono a pagamento Santa Maria Novella, Santa Croce e San Lorenzo; a Verona il Duomo, San Zeno, Santa Anastasia e San Fermo; a Venezia le chiese sono sedici, dai Frari al Redentore. Per ognuna è previsto l’accesso gratuito durante le funzioni e un’area libera riservata alla preghiera (ma ad esempio a Santa Maria Novella questa è una cappella esterna). Non sempre però le dinamiche tra culto e cultura sono semplici. Nei mesi scorsi l’arcivescovo di Arezzo aveva sollevato il caso della basilica minore di San Francesco, che ospita gli affreschi con le Storie della vera croce di Piero della Francesca, luogo di culto affidato ai frati minori ma di proprietà dello Stato, lamentando difficoltà di accesso per i fedeli. Il Mibact ha assegnato in concessione a una società esterna la gestione dell’intero edificio, che è ufficialmente parte dei Musei statali di Arezzo.

Questioni delicate, che richiedono secondo Valerio Pennasso, direttore dell’Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto della Cei, una premessa: «Le chiese ovunque rappresentano per la comunità cristiana e civile un bene identitario indiscutibile, come testimoniano la cura che vi si pone nel mantenerle e nelle testimonianze di arte, di storia e di fede che danno loro forma. Per la comunità cristiana l’edificio chiesa è il luogo del ritrovarsi per la preghiera. La prevalenza di interesse è quindi quello pastorale. Alle comunità interessa che le chiese siano aperte e che siano visitate. In molte realtà ci si organizza con il volontariato, in diversi casi anche organizzato in associazioni che provvedono alla formazione dei membri con progetti finalizzati alla valorizzazione». Nel 2012 il consiglio permanente della Cei ha pubblicato una nota in cui si «riafferma il principio dell’apertura gratuita delle chiese, come luoghi dedicati primariamente alla preghiera comunitaria e personale», regola da «applicarsi anche alle chiese di grande rilevanza storicoartistica, interessate da flussi turistici notevoli».

Pur ammettendo la possibilità di un ticket «per la visita a parti del complesso chiaramente distinte», in linea di principio «è da escludersi che l’accesso alle chiese aperte al culto sia condizionato al pagamento di un biglietto di ingresso. Ciò vale sia per le chiese di proprietà di enti ecclesiastici che per quelle dello Stato, di altri enti pubblici e di soggetti privati». Eppure non è così semplice. Lo slittamento percettivo (queste chiese per molti sono già musei, con o senza biglietto) è frutto di mutazioni sociali in atto da oltre due secoli. Il fenomeno appare anche sintomo del logoramento del tessuto delle comunità cristiane, specie nei grandi centri storici, a causa di processi difficilmente reversibili (lo spopolamento, la riduzione del clero, la disaffezione verso la pratica religiosa…), e che si riflette nella difficoltà di gestire il patrimonio artistico. L’avvento del turismo di massa ha divorato questi luoghi come prodotti di consumo e minato equilibri fragili. «In molti casi – riflette Pennasso – il flusso turistico rischia di stravolgere il significato stesso degli edifici sacri. Penso però che occorra distinguere e approfondire le diverse situazioni. A volte l’accesso a pagamento potrebbe cercare di risolvere non solo gli aspetti economici, ma anche la “gestione dei flussi” così che almeno alcune parti della chiesa possano essere riservate al silenzio e alla preghiera».

Il problema della sostenibilità economica lo conoscono bene le fabbricerie che hanno in carico cattedrali e basiliche monumentali. Sono una ventina di realtà, normate dalle leggi concordatarie, organismi laici (in continuità con le loro origini medievali) con il compito di amministrare edifici di culto. Integralmente a loro carico: «Le fabbricerie non hanno contributi pubblici o istituzionali di nessun tipo» spiega Pierfrancesco Pacini, presidente dell’Opera della Primaziale Pisana e presidente dell’Associazione fabbricerie italiane. «Devono sorreggersi solo sulle proprie forze, e con queste coprire apertura, manutenzione, sicurezza, restauri… Sono costi enormi, ma la condizione di difficoltà per le più piccole spesso è ancora più gravosa ». Per molte la bigliettazione è una delle principali fonti di finanziamento. Se quasi tutte richiedono un ticket per accedere a porzioni dei complessi monumentali come battisteri, campanili o musei, alcune l’hanno posto anche per la chiesa: «Per l’associazione non è una scelta da denigrare, perché dettata dalla necessità e compiuta sempre nel rispetto degli aspetti religiosi e liturgici. Gli sponsor? Funzionano per pochi edifici, per gli altri non si trovano. Alcune hanno un patrimonio fondiario a cui attingere, altre no. Ogni caso è a se stante. Nel nostro specifico, a Pisa negli anni ’90 non era previsto il pagamento per la primaziale, poi quando la torre fu chiusa per i restauri, gli introiti calarono e fu messo il biglietto in cattedrale. Nel 2012 la Cei ha indicato la gratuità come norma, e l’arcivescovo ha voluto togliere il biglietto a pagamento. Resta in forma gratuita per contingentare, per ragioni di sicurezza, l’ingresso».

A Venezia, dove le dinamiche di spopolamento e pressione turistica arrivano all’estremo, dal 1998 agisce Chorus, che ha in gestione sedici chiese. «Siamo un’associazione – spiega la direttrice Paola Marangoni – composta dai parroci e rettori delle chiese di cui abbiamo in cura la gestione ordinaria. I biglietti coprono ventuno dipendenti che garantiscono l’apertura e i servizi esterni come le pulizie e la sorveglianza». La direttrice è ferma nel ribadire il ruolo di Chorus: «Noi siamo nati per aiutare le parrocchie e impedire che le chiese di Venezia rimanessero chiuse. Non mi sento di dire che le nostre siano chiesemuseo, facciamo in modo che le persone possano godere delle bellezze interne. Se non ci fossimo alcune chiese resterebbero sempre chiuse salvo la domenica per la Messa». Ma l’associazione vive un momento di difficoltà: «Abbiamo dovuto ridurre gli orari di apertura per ragioni di bilancio. Sono scomparsi gli sponsor esterni. Non ci sono più margini per i restauri e abbiamo dovuto sospendere le attività culturali connesse».

Anche Domenica Primerano, direttrice del Museo Diocesano Tridentino e presidente dell’Associazione dei musei ecclesiastici italiani, si dice aperta: «Non sono contraria al biglietto: credo che si debba educare il pubblico al fatto che tutelare e valorizzare ha un costo e richiede un contributo. A Trento il museo diocesano ha in gestione la basilica paleocristiana, che si distende sotto il duomo. Si entra con un biglietto di 1,50 euro op- pure con quello del Museo, ma chi vuole pregare può accedere gratuitamente a uno spazio dedicato. L’ingresso a pagamento alla basilica paleocristiana avviene da almeno 30 anni. È un sito molto visitato, e nessuno ha mai sollevato problemi».

Il gesuita Andrea Dall’Asta ha creato due anni fa all’interno del complesso della chiesa di San Fedele a Milano un percorso in cui sul campo del sacro si incontrano arte antica e contemporanea. La chiesa resta di libero accesso, mentre per il Museo San Fedele, che comprende la cripta, il coro, la sacrestia e sale con dipinti e reliquiari, si accede con un contributo di 2 euro. «Il principio che la chiesa debba essere uno spazio aperto dovrebbe essere sempre salvaguardato. Trovo imbarazzante entrare in chiese, soprattutto se cattedrali, in cui occorre pagare un biglietto, come se l’edificio fosse trasformato in un museo destinato ad accogliere le memorie del passato di comunità oggi quasi scomparse». La scelta a San Fedele è stata frutto di una lunga riflessione, a partire dalla comunicazione: «Il ticket richiesto per il percorso organizzato, che si configura come un vero e proprio itinerario di arte e fede, si pone come un contributo alle spese di organizzazione e di manutenzione».

Articolata è l’esperienza di Timothy Verdon, direttore del Museo dell’Opera del Duomo di Firenze. «Negli anni 90 ho sostenuto la proposta dell’allora arcivescovo Piovanelli di istituire un biglietto in alcune chiese storiche perché, come oggi, non c’era modo di garantire pulizia, fruibilità e sicurezza secondo standard professionali. L’alternativa era la chiusura. Ma c’era anche un altro aspetto: mentre nei musei i visitatori avevano maggiore rispetto, nelle chiese erano indisciplinati. E quindi il biglietto era un invito a comportarsi meglio. Negli anni la bigliettazione ha risolto il problema gestionale e turistico, e questo è positivo. Ma sull’altro versante queste chiese vengono ormai percepite più come musei anche dai fedeli stessi. Questo nessuno di noi all’epoca l’aveva capito. C’è sempre un ingresso per i fedeli, ma se prima in qualsiasi momento era possibile godersi la bellezza della preghiera in un ambiente magnifico, ora si avverte una barriera psicologica. Manca la spontaneità dell’esperienza».

Forse l’elemento meno valutato è proprio cosa cambia all’interno di una comunità. «Il biglietto rende ancora più difficile il senso di casa e appartenenza. Vivere, sposarsi, battezzarsi in una chiesa che attira milioni di turisti cambia la percezione: e su questo le autorità ecclesiastiche devono lavorare con cura. Certo, senza biglietto la comunità può illudersi di offrire la propria chiesa a tutti; ma con il biglietto, seppure ben compreso nelle finalità, il rischio è la riduzione a una questione commerciale». Assodata l’esistenza del problema economico, ci sono soluzioni alternative alla bigliettazione? «Sarebbe interessante – conclude Pennasso – poter far fronte e persino incentivare i flussi turistici garantendo la gratuità degli accessi attraverso strumenti di compensazione economica. In ogni caso è necessario ribadire che la chiesa è sempre e prima di tutto un luogo sacro e tale deve rimanere anche fuori dagli orari delle celebrazioni. Ogni utilizzo differente da quello liturgico, per quanto legittimo, deve essere disciplinato peché non interferisca con la destinazione primaria e costitutiva dell’edificio al culto pubblico».

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