Preben Lerdorff Rye (Johannes) in una scena del film “Ordet” di Carl Theodor Dreyer (1955) ispirato a un’opera di Kaj Munk
Il miracolo appartiene alla terra, non al cielo. Non contraddice la storia, ma la completa. È efficace, tangibile, concreto. Abbatte il confine tra visibile e invisibile non per rivendicare il primato dello spirito sulla materia, ma per ricondurre la materia alla sua perduta maestà. Gesù lo chiarisce con forza in uno dei primi dei “segni” di cui Marco dà conto nel suo Vangelo, e cioè la guarigione del paralitico a Cafarnao. Si scoperchia il tetto per far entrare l’uomo nella casa in cui si trova Cristo e questi, come ricompensa a tanta fede, annuncia la remissione dei peccati. Mentre gli scribi borbottano, il rabbi se ne esce con un paradosso magistrale: «Che cosa è più facile: dire al paralitico “Ti sono perdonati i peccati?” oppure dire “Àlzati, prendi la tua barella e cammina”?» (Mc 2,9). Dopo di che nella carne del malato avviene, puntuale, il prodigio annunciato. È la fondazione sacramentale del miracolo, la conferma del suo essere segno visibile della grazia invisibile. Allo stesso modo si potrebbe sostenere che il miracolo è per sua natura politico, nel senso che, introducendo un dato di discontinuità nel reale, costringe a riformulare il reale stesso, a plasmarlo secondo nuovi criteri. «Il miracolo – ha scritto il filosofo Boyan Manchev – è la possibilità che in ogni istante accada una deriva radicale, un cambio di direzione del mondo»
Sono le coordinate che occorre tenere presenti per avvicinarsi all’opera di Kaj Munk, il grande drammaturgo danese universalmente noto per aver ispirato Ordet, uno dei capolavori cinematografici del connazionale Carl Theodor Dreyer. E proprio Ordet, composto nel 1925 e presentato per l’occasione con il duplice titolo La Parola – Il Verbo, figura in apertura del volume che racchiude alcuni dei testi più significati del Teatro di Munk (a cura di Gianandrea de Antonellis; D’Amico, pagine 228, euro 14,00). Insieme con la storia del tormentato Johannes, profeta in un tempo senza più profezia, figurano Egli siede davanti al crogiolo, finora inedito in Italia, e il poco conosciuto Prima della battaglia di Canne, che sono drammi politici tanto quanto La Parola – Il Verbo è un dramma teologico. Ma la distinzione, per l’appunto, non è affatto netta.
Nato il 13 gennaio 1898, Munk (il cui vero nome era Kaj Harald Leininger Petersen) fu ucciso dalla Gestapo il 4 gennaio 1944. Oltre che negli scritti per il teatro, la sua opposizione al regime hitleriano si era espressa in una serie di coraggiosi sermoni pronunciati dal remoto avamposto dello Jutland in cui il drammaturgo svolgeva la sua attività di pastore luterano. Un destino che ricorda quello di un altro martire dell’epoca, il teologo tedesco Dietrich Bonhoeffer, e nel quale la visione mistica va di pari passo con l’impegno antitotalitario. Non per niente, Egli siede davanti al crogiolo (1938) è un singolare esempio di commedia antinazista, imperniata su un’immaginaria scoperta archeologica che documenta in maniera inappellabile l’appartenenza di Gesù al popolo ebraico, smentendo così la propaganda sul Cristo ariano. E di straordinaria intensità è Prima della battaglia di Canne (1943), l’atto unico che in un rapido scambio di battute condensa tutta una teologia della storia. Il contrasto tra il cartaginese Annibale e il romano Fabio Massimo rende plastica la differenza tra il condottiero che si illude di plasmare i destini dell’umanità e il governante che si consegna all’evolversi degli eventi, facendo affidamento sulla saggezza del popolo, sull’istintiva capacità popolare di distinguere il giusto dallo sbagliato, e agire di conseguenza.
Centrale, in ogni caso, rimane il tema della “Parola”, che Munk riprende con caparbietà nella sua predicazione sotto l’occupazione nazista: «Qui, nella casa di Dio, la parola è libera: non perché ne possiamo disporre, ma perché è essa stessa a disporre di noi – proclama –. Qui vige unicamente la censura imposta dallo Spirito Santo, che non ci costringe al silenzio, ma ci obbliga a parlare». E ancora: «Gesù non è soltanto il Salvatore dell’individuo, ma è anche il Salvatore del nostro popolo».
Il miracolo è un segno popolare, nel senso che si rivolge al popolo, venendo incontro alle sue necessità, non importa quanto elementari possano apparire. La commozione di Cristo davanti alla folla registrata in Mc 8,2 (lo struggente Misereor super turbam) non si discosta molto dal sentimento che porta Johannes a pronunciare la “Parola” miracolosa davanti al cadavere della cognata Inger. Se il folle di Dio è incitato dalla richiesta di Maren, la maggiore delle figlie della defunta, nel racconto giovanneo della moltiplicazione dei pani l’iniziativa viene dal ragazzo che ha portato con sé una modesta scorta di provviste (Gv 6,9). «Amavo anche il suo corpo, io», protesta il vedovo Mikkel quando teme che la bara della moglie stia per essere definitivamente chiusa. È sempre al corpo che il miracolo provvede, sanando e sfamando, riportando alla vita.
La possibilità che il miracolo si manifesti qui e ora è il rovello che accompagna Munk fin dai tempi della tesi di dottorato, dedicata a questa che, contrariamente a quanto si potrebbe ritenere, non è affatto una questione sollevata in modo originale e autonomo dallo scientismo di fine Ottocento e attraversa anzi l’intera storia del cristianesimo. Un ruolo esemplare ha, per esempio, l’evoluzione delle convinzioni di Agostino di Ippona, che passa da una posizione di aperta intransigenza (la stagione dei miracoli si sarebbe conclusa con l’estinguersi della generazione degli apostoli) all’icastica affermazione della maturità: «Fiunt ergo etiam nunc multa miracula eodem Deo faciente per quos vult et quemadmodum vult» (De Civitate Dei). Anche oggi avvengono molti miracoli, scrive Agostino, ed è Dio stesso a farli, per mezzo di chi vuole e nel modo in cui vuole. Non diversamente, i Pensieri di Pascal, solitamente considerati il documento fondativo di una spiritualità razionale e conseguente, traggono la loro necessità dal desiderio di portare argomenti a favore di una guarigione prodigiosa avvenuta nel 1656 presso il monastero giansenista di Port-Royal per il tramite della reliquia della Santa Spina. Il loico Pascal è addirittura inappellabile nello stabilire che «non è possibile credere ragionevolmente contro i miracoli».
Da parte sua, in un sermone del Venerdì Santo, Munk, si scaglia contro una fede ridotta a rassicurante pratica di devozione. La Risurrezione, sostiene il danese, «è in disaccordo con tutto», in particolare con un cristianesimo che pretenda di distaccarsi dalla concretezza del mondo sensibile per rifugiarsi in un vago spiritualismo. L’evento pasquale va in tutt’altra direzione perché, insiste Munk, «c’è qualcosa di divinamente insolente nella realtà brutale con cui il Salvatore si mostra agli apostoli in veste di vincitore». Lo Spirito agisce sempre nella materia, nella carne degli uomini e delle donne, nella storia dei popoli. È ancora Munk a definire provocatoriamente la Bibbia come «un libro terribile», dal quale si apprende che nutrire buoni sentimenti non basta, non basta cullarsi nell’illusione di una coscienza pacificata. Anche per questo, in fondo, il gesto di silenzioso coraggio che il mite archeologo Mensch compie al termine di Egli siede davanti al crogiolo non è meno miracoloso della guarigione che Johannes opera nella Parola. «Nel cristianesimo ci sono molte cose incredibili», ammette Munk, che subito provvede a elencarne alcune: la Trinità, il concepimento virginale, il Battesimo, la Santa Comunione. «Ma la più incredibile di tutte – conclude – è che Dio ha bisogno di me».