Lo avevo visto molte volte in televisione, conduttore di programmi culturali che oggi sarebbe impossibile proporre per l’assalto quotidiano all’audience . Una sorta di Alberto Manzi che parlava di Orlando paladino, di filosofia e di Dio, con identica bonomia, con mille piccoli racconti che parevano desunti da un Vangelo laico. Sapevo che era stato finalista a un Campiello con
Adamo in Sicilia, il suo libro più noto, un romanzo autobiografico che partiva certamente da Verga ma che raccontava la rivoluzione verificatasi nella società contadina del Novecento. La Provvidenza non era più la barca affondata dei Malavoglia, nonostante lui – Fortunato – avesse avuto un’infanzia contadina difficile, la Provvidenza aveva aiutato gli uomini a mutare il corso degli eventi. Il romanzo aveva in controluce la storia del giovane Fortunato che aveva prima dovuto piegarsi al lavoro negli agrumeti, attraversare una Sicilia funestata dalla guerra, ma più tardi aveva fatto fortuna con gli studi. Il contadino di un tempo si era fatto conduttore televisivo e narratore. C’erano dunque grandi possibilità di movimento nella società moderna. A me sinceramente l’immagine di Fortunato Pasqualino appariva un po’ confusa. E ancora di più si confuse quando ci incontrammo nella sede Rai di Bari. Mi si presentò allungandomi una mano grande quanto la palma di una foglia di fico, lo indirizzava a me Gino Montesanto perché lo accompagnassi, dal momento che col fratello Pino aveva dato vita a un teatro dei pupi e la faccenda lo interessava. Disse che coi pupi ci aveva trafficato da piccolo, nonostante sua madre glieli avesse bruciati per timore che si lasciasse traviare da quello strano mestiere. Lui si era poi laureato in filosofia del linguaggio, aveva insegnato, prima di collaborare con la Rai. Pasqualino era tutte queste cose messe insieme, un filosofo, uno storico della filosofia, il gestore di un teatro dei pupi, un autore di testi teatrali, un conduttore e ideatore di programmi televisivi, uno sceneggiatore di film. Fisicamente era un gigante, con un sorriso largo quanto una fetta d’anguria e le manone che esplodevano dai polsi bianchi della camicia. E più tardi nella mia Renault fece difficoltà a sistemarsi. Sapevo nulla dei fratelli Dell’Aquila di Canosa? Intendeva porre loro qualche domanda per una apparizione televisiva. No, sapevo poco, giusto qualche notizia colta presso le edizioni Levante di Bari dove all’epoca (eravamo negli ultimi anni Ottanta) Daniele Giancane – che insegnava Letteratura per ragazzi all’Università – intendeva pubblicare una raccolta di canovacci. Confesso che anche di lui avevo letto poco e che quel viaggio a Canosa mi mise addosso la voglia di saperne di più, di leggerlo, anche se era già complicato reperire i suoi libri. La lunga conversazione mi fece cogliere per esempio la sua doppia pulsione verso l’analisi sociale del Mezzogiorno e la fuga verso lo spiritualismo. Tutta roba che era stata chiarita bene nel
Diario di un metafisico (’64) e nei
Segni dell’anima (’81). Fortunato si arrovellava sulle ragioni vere dell’esistenza, reinterpretava Kierkegaard e ne utilizzava il racconto filosofico, in un tempo in cui tornava di moda il narrare illuministico ma non l’attenzione alle voci dello spirito. Mi raccontava le stagioni della sua vita con trasporto, come ci conoscessimo da sempre, e non perdeva occasione per trarre da ogni evento una finalità profonda, metafisica. Ciò che ritrovai più tardi nella scrittura, dove trasformava ogni storia in parabola con una chiusa moraleggiante, costruiva monologhi sacri che metteva in bocca a pupi, dei quali lui era il puparo. Mentre il modo di raccontare era del teatro dei pupi, la chiusa morale nasceva dalla sua formazione filosofica. Una chiusa che ai pupari siciliani non piaceva e che a loro dire snaturava la struttura semplice di quel lavoro, nato dal popolo e diretto al popolo. Di questo gioco parabolare se ne ebbe conferma nella biografia di sant’Antonio. Il santo di Padova diventava una creatura umanissima e quotidiana e il dialogo con la natura, la loquela che cattura uomini e bestie erano quanto mai naturali. Una creatura che si racconta e che dice cose complesse in modo semplice, consapevole che il suo è un pubblico poco alfabetizzato e che ha bisogno di essere stupito e formato. È Gesù che parla alle folle, al modo in cui Fortunato– puparo parla ai ragazzi da un boccascena. Tra le creature della mitologia cristiana Pasqualino privilegiava Gesù. Ne arrivò a scrivere una reincarnazione ai tempi moderni in
Il giorno che fui Gesù (1986) e
Con Gesù a passo d’asino. Con argomentare spiazzante e fantasioso. Perché compito del narratore è tornare all’oralità dei cantastorie, magari aiutarsi attraverso la gestualità, le maschere del viso, le tonalità della voce. L’arte del puparo aveva permesso a Pasqualino di anticipare anche Demetrio Stratos e Carmelo Bene e di dare voce al Vangelo in una modalità che a suo dire tutti i quaresimalisti conoscevano e che avrebbero dovuto conoscere tutti gli esplicatori di parabole. Se ne leggano certi domenicali scritti per
Avvenire, dove emerge prepotente il professore di filosofia. Fortunato era partito da don Chisciotte e da Orlando ed era approdato ai santi e a Cristo raccontati o che si raccontavano al popolo e univa autobiografia, narrativa e filosofia, badando a suscitare curiosità, da buon conduttore televisivo e come si ha modo di leggere ne
La danza del filosofo. Si tratta di un libro di parabole espresse col sorriso. Ricordo quella del guardiano di una villa che ha scritto sul muro «Attenti al cane ». Il cane in realtà non c’è, ma la gente ne teme lo stesso la presenza. Il succo dov’è? Lo spiega Fortunato stesso in chiusura di parabola: «Se temibile è un Dio che in qualche modo vive tra noi, più temibile è un Dio che non c’è, in nessun luogo, e che insieme potrebbe essere dappertutto; un Dio non più legato ad un altare, dove si possa ritrovarlo e cercare di rabbonirlo».