
Il presidente dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia, Massimo Biscardi - Musacchio & Pasqualini / Musa
Una piattaforma per trasmettere in streaming, sul modello della Digital concert hall dei Berliner philharmoniker. E poi una digitalizzazione di tutto l’archivio. È un’Accademia nazionale di Santa Cecilia «proiettata nel futuro », che guarda alle conquiste della tecnologia «per poter continuare a crescere sui pilastri storici sui quali è stata fondata» quella che Massimo Biscardi progetta dalla sua scrivania al Parco della musica di Roma. Il musicista e manager pugliese, settant’anni il prossimo ottobre, si è da poco insediato al vertice dell’Accademia, eletto lo scorso ottobre presidente e sovrintendente dai settanta accademici per il quinquennio 2025-2030. « E loro che rappresentano il meglio della musica italiana saranno tutti presidenti insieme a me, perché la mia sarà una gestione condivisa» dice Biscardi, diplomato in pianoforte, composizione e direzione d’orchestra, una carriera prima da concertista e poi da organizzatore musicale tra il Lirico di Cagliari, il Petruzzelli di Bari e la Mozart di Claudio Abbado. Approdato ora a Santa Cecilia «che per qualsiasi musicista italiano, ma non solo, direi, è il massimo punto di arrivo perché i nostri maestri erano tutti accademici».
Come sarà, Massimo Biscardi, la sua Santa Cecilia?
«Non sarà “mia”. Sarà di tutti, perché l’Accademia è un’istituzione storica, fondata nel 1585. Occorre fare in modo che continui a crescere sulle basi sulle quali è stata costruita, i concerti e poi l’aspetto scientifico e quello educativo. Da subito ho percepito in tutti i lavoratori la grande voglia di collaborare, progettando non solo per i prossimi anni, ma per un futuro remoto, per dare all’Accademia un ampio respiro. Occorre lavorare, innanzitutto, sull’approccio alla musica da parte del pubblico che è un pubblico importante, ma non è ancora a un livello che io considero necessario: l’idea che ci sia anche solo un romano che non abbia mai sentito un concerto di Santa Cecilia non mi lascia tranquillo».
Non solo concerti, quale il volto dell’Accademia che vuole disegnare?
«L’attività scientifica è fondamentale tanto che vorrei riprendere la produzione di volumi da commissionare a musicologi. In ogni istituzione musicale che ho guidato ho sempre voluto dare spazio alla musica contemporanea. Sarà un’attenzione che metterò anche nel mio mandato a Santa Cecilia, con la commissione di nuove partiture perché abbiamo il dovere di provare a lasciare musiche che rimarranno nella storia. Tanto più che la musica contemporanea ha un pubblico vasto e molto competente. Abbiamo una libreria ricchissima per chi vuole studiare la musica da Palestrina in poi. Il mio progetto è quella di digitalizzarla per rendere il nostro patrimonio disponibile agli studiosi di tutto il mondo».
E vorrebbe portare la tecnologia anche nelle sale da concerto dell’Auditorium Parco della musica…
«Penso sia importante mettere a punto una piattaforma per la trasmissione in streaming dei concerti di Santa Cecilia perché la grande qualità della nostra orchestra, tra le dieci migliori al mondo, ne sono convinto, e del nostro coro deve essere conosciuta. Antonio Pappano in diciotto anni ha fatto un grande lavoro e dobbiamo farlo conoscere ».
A proposito, lo scorso ottobre è iniziato il mandato come direttore musicale di Daniel Harding, che ha raccolto il testimone di Antonio Pappano.
«Conosco Harding dai tempi della collaborazione con Abbado, qui a Roma, in veste ufficiale, non ci siamo ancora incrociati, ma succederà presto, in vista dei concerti della prossima settimana. Intanto ci scriviamo, ci consigliamo, programmiamo insieme il futuro dell’Accademia continuando il lavoro fatto da Michela Dall’Ongaro».
Continuità o innovazione?
«La continuità sta nelle cose perché è il fiume sul quale noi navighiamo. Però ci sarà anche tanta innovazione. Tecnologica, certo, ma anche nell’approccio al nuovo pubblico. Sarà fondamentale incrementare ancora di più il lavoro con le scuole e i più piccoli, occorre un cambiamento della mentalità verso la musica che la scuola oggi non riesce a compiere e che è nostro dovere mettere in atto».
Che artisti le piacerebbe portare sul palco dell’Auditorium? Quali autori sui leggii dell’orchestra?
«Dalla prossima si potrà vedere la mia impronta per quel che riguarda gli artisti, ma non voglio anticipare nulla. Trovo invece che per quanto riguarda i programmi dobbiamo occuparci di una generazione di autori ingiustamente dimenticati, la generazione degli anni Ottanta dell’Ottocento, penso a Casella, Malipiero, Ghedini e Pizzetti. Se fossero stati autori finlandesi, ad esempio, le loro musiche sarebbero state le composizioni più eseguite, patrimonio nazionale. Noi italiani, invece, peccando di provincialismo ce ne siamo dimenticati. Grande spazio devono averlo anche gli autori italiani contemporanei che sono tanti e di talento».
Quale il ruolo di Santa Cecilia in Italia?
«L’Accademia ha un ruolo primario nella cultura italiana. Le nostre scelte e le nostre indicazioni artistiche devono essere un faro per la musica nel nostro paese. L’Accademia deve fare di tutto per dare un ordine a questioni di etica ed estetica musicale nel panorama italiano alle quali poi teatri e società di concerti possono ispirarsi». Santa Cecilia, così come il Teatro alla Scala, ha conquistato l’autonomia gestionale nel quadro delle fondazioni lirico-sinfoniche. Cosa implica? «Una grande responsabilità. Il rischio è che Santa Cecilia e la Scala mantengono una posizione di distanza dalle altre fondazioni. Un rischio che dobbiamo evitare perché questo distacco non è naturale e nemmeno utile. Penso che occorra una maggiore collaborazione tra le fondazioni, occorrono idee e progetti da condividere e realizzare insieme».
Cosa serve oggi alla musica in Italia?
«Occorrono molte cose. Quelle che chiediamo da sempre, certo. Ma soprattutto, lo dico anche da musicista, occorrerebbe una nuova linfa da parte degli artisti stessi. È strano percepire che sono pochi i musicisti di casa nostra che credono davvero nella loro professione. All’estero non capota. Forse questo è dovuto anche alla confusione che c’è nella proposta formativa. Non solo. Oggi si cercano i fenomeni. Un tempo c’era il praticantato. I giovani facevano gli assistenti dei grandi direttori e si formavano sul campo. E questo permetteva anche agli organizzatori musicali di capire il valore di questi musicisti. E di scoprire veri talenti. Oggi invece i giovani iniziano subito a dirigere le grandi orchestre, sono trattati come fenomeni. Ma durano poco e molte carriere finiscono in una manciata di anni».