
Immigrati negli Stati Uniti destinati alla “deportation” - Ansa/Allison Dinner
“Deportazioni, espulsioni, migrazioni forzate” è il titolo del convegno organizzato all’Università Cattolica del Sacro Cuore dal professor Giorgio Del Zanna e dal Centro di ricerca sulla World History. Sono fenomeni diversi e le differenze tra le lingue possono creare confusione. Recentemente, una foto di uomini in catene che stanno salendo su un aereo negli Stati Uniti ha fatto il giro del mondo sotto la scritta “Deportation”. È stato un messaggio terribilmente eloquente di “cattivismo”: come ha sottolineato Maurizio Ambrosini, le politiche contro l’immigrazione sono oggi fatte anche di comunicazioni minacciose, per incutere paura, spegnere la speranza e piegare ogni resilienza. Deportation non significa deportazione, bensì rimpatrio obbligato, re-immigrazione, espulsione o simili, come ha messo a fuoco il convegno, pur analizzando i punti di contatto tra deportation - e cioè espulsione di migliaia di singoli individui - e deportazione - e cioè spostamento forzato di grandi masse o di intere popolazioni. Oggi, la confusione linguistica contribuisce allo sdoganamento di una parola che fino a pochi anni fa avremmo considerato impronunciabile e, contemporaneamente, oscura ciò è comune a questi fenomeni diversi: le ferite che aprono nei corpi e nelle anime di chi le subisce. È questo intreccio che il convegno si è proposto di affrontare.
Sono temi già al centro della riflessione di settantacinque anni fa di Hannah Arendt sugli apolidi, una condizione che lei stessa ha sperimentato personalmente. Arendt usava il termine tedesco Heimatlose che significa anche “persona senza patria”, oltre che apolide in senso stretto e cioè “senza Stato”. Come ha scritto ne Le origini del totalitarismo, si tratta di un fenomeno non risolvibile entro l’organizzazione statual-nazionale. Dopo la Prima guerra mondiale, la definizione degli Stati nati dai trattati di pace riguardò le nazionalità che disponevano di una notevole forza numerica e trascuravano le altre: raggruppati più popoli in uno Stato, i trattati affidavano il governo a uno di essi e formavano poi arbitrariamente un altro gruppo di nazionalità definite “minoranze”. L’afflusso nei vari Stati di centinaia di migliaia di profughi fece venir meno il diritto di asilo riguardante i singoli e non considerava le migrazioni di massa o addirittura di interi popoli, nei cui confronti le abituali politiche di assimilazione e naturalizzazione fallivano. La questione dei profughi venne speso affrontata in termini di ordine pubblico e alle forze di polizia fu affidato il compito di occuparsi di loro.
Al fondo di questi processi c’era l’identificazione in pratica tra cittadinanza statuale e appartenenza etnico-culturale. Spiega Arendt: «I trattati sulle minoranze dicevano a chiare lettere quel che fino ad allora era stato implicito nel sistema degli Stati nazionali, cioè che soltanto l’appartenenza alla nazione dominante dava veramente diritto alla cittadinanza e alla protezione giuridica, che i gruppi allogeni dovevano accontentarsi delle leggi eccezionali finché non erano completamente assimilati e non avevano fatto dimenticare la loro origine etnica».
Si verificò la trasformazione dello Stato da strumento giuridico in strumento nazionale, vale a dire «la conquista dello Stato da parte della nazione» – che secondo Emilio Gentile è stato anche alla base della ri-fondazione del fascismo nel 1921 – con il sopravvento degli interessi nazionali sui diritti delle persone. Hannah Arendt descrisse lucidamente la figura dello Heimatlose, senza una patria e un posto nel mondo, senza cittadinanza e il diritto ad avere diritti. Gli apolidi si trovarono al di fuori di tutte le leggi e passibili di detenzioni forzate senza aver commesso alcun delitto (viene in mente quella che oggi viene definita “detenzione amministrativa”, un concetto giuridicamente a dir poco problematico). La condizione dello Heimatlose, che è innocente da ogni punto di vista, è peggiore di quella del criminale, che ha comunque diritto a un processo e rimane dotato della sua personalità giuridica (secondo un rapporto del garante dei detenuti in Italia, le condizioni di vita nei Cpr sono del tutto analoghe a quelli degli istituti di pena, ma i detenuti hanno almeno diritto alle garanzie previste dall’ordinamento detentivo giudiziale o ordinario). L’apolide, che non può appellarsi ad alcun diritto, può essere arbitrariamente espulso o recluso, e sperimenta senso di irrealtà e di perdita del mondo. La loro situazione suona ipso facto «come un invito all’omicidio […] Se li si uccide, è come se a nessuno fosse causato un torto o una sofferenza».
Naturalmente, molto è cambiato da allora. Ma si assiste oggi – sotto la spinta di nuovi nazionalismi - ad un pericoloso ritorno di qualcosa di profondamente legato alle tragedie del Novecento, anche al di là del loro nesso con i genocidi, da quello degli armeni alla Shoah, con i “campi”, dai lager ai gulag. Lo ha messo in luce Giorgio Del Zanna parlando delle grandi deportazioni di popolazioni greche e turche negli anni Venti e Trenta del secolo scorso – le prime grandi deportazioni “legali” – e Nicolò Pianciola che ha delineato un quadro complessivo delle espulsioni di massa dell’età contemporanea. A portare il discorso sull’attualità è stata la giurista Francesca De Victor che ha documentato lucidamente come i Paesi europei negano oggi di fatto il diritto di asilo agli Heimatlose del XXI secolo attraverso l’esternalizzazione delle frontiere: se i profughi non entrano “giuridicamente” in Europa si possono tranquillamente disapplicare le norme europee basate sui diritti fondamentali dell’uomo. Maurizio Ambrosini, infine, ha analizzato ancora una volta le fake news di cui è intessuta la narrazione corrente sul “problema” immigrati, ricordando tra l’altro come la società europea abbia assorbito senza particolari difficoltà l’improvviso arrivo di sei milioni di ucraini in fuga dalla guerra. Non c’è davvero in atto un grande pericolo che giustifichi il tradimento che l’Europa – splendida costruzione di umanesimo giuridico – rischia di compiere nei confronti di se stessa e dei suoi valori costitutivi.