Lui parla di «incomprensibile colpo di mano» e torna a sottolineare il concetto di «macelleria culturale». E riguardo al ministro Franceschini, sostiene che bisognerebbe spiegargli la differenza che c’è fra un manager d’azienda e un soprintendente, così come quella fra i grandi musei generalisti come il Louvre e la caratteristica essenziale italiana che è quella del «museo diffuso sul territorio». Il riferimento è alla recente proposta di riforma dei Beni Culturali lanciata dal ministro Dario Franceschini. Il "lui" in questione è Antonio Paolucci, storico dell’arte di fama internazionale, già ministro dei Beni Culturali e soprintendente in città come Firenze, Mantova e Venezia. Oggi è direttore dei Musei Vaticani che, nei fatti, costituiscono il nucleo museale più visitato dello Stivale.
Insomma, direttore, questa proposta proprio non le piace...
«Direi che a me, come ad altri, ha colpito questo colpo di mano senza che i vari soprintendenti e gli storici dell’arte, cioè coloro che hanno il polso della situazione, siano stati in qualche modo partecipati, come sarebbe logico pensare... Il risultato è che con la scusa della spending review sono state proposte cose che potrebbero tradursi in vera macelleria culturale».
A che cosa si riferisce?
«Per esempio all’accorpamento delle soprintendenze; al puntare tutto su pochi grandi poli museali guidati da manager... Credo che il vero obiettivo di questo, al di là della spending review, sia disarticolare il sistema delle soprintendenze per regionalizzarle. Ma un soprintendente che viene nominato dal governatore di una regione diventa un docile strumento nelle sue mani. E considerando che i soprintendenti hanno competenza sulla gestione del territorio... In questa direzione, mi pare di capire, va anche il frazionamento in tre (Uffizi, Bargello, Accademia) del polo museale fiorentino, che attualmente raccoglie 27 realtà musive con 800 dipendenti, 5,5 milioni di visitatori l’anno e 30 milioni di fatturato: un qualcosa che può dialogare con la politica da una posizione di forza».
Poi c’è la questione dei manager...
«Credo che la gestione dei Beni culturali debba restare ai soprintendenti, i manager lasciamoli alle aziende, che sono un’altra cosa».
Una questione di obiettivi?
«E di preparazione specifica. Un bravo soprintendente deve essere un buon archeologo, uno storico dell’arte, un architetto preparato... Gente che abbia una visione d’insieme, di prospettiva, non soltanto commerciale. Per capirci: il direttore di una grande catena di supermercati deve saper accontentare i clienti di oggi; un soprintendente degno di tal nome lavora anche, se non soprattutto, per gli uomini e le donne che devono ancora nascere. Ma ora ci sono queste mitologie esterofile e ci vuole la fondazione, ci vuole il manager...».
Sono le mode del momento.
«Vede, il ministro Franceschini insiste sulla necessità di portare a reddito il patrimonio culturale, io dico che quel patrimonio prima che a fare quattrini serve a creare i cittadini, a fare degli italiani un popolo con una propria identità e specifiche caratteristiche culturali... Questa è la vera nostra forza. Ma è difficile farlo capire».
Però si insiste con gli esempi e con i numeri a due cifre dei milioni di visitatori dei grandi musei come il Louvre, l’Ermitage, il Metropolitan...
«Da noi non esiste questa tipologia di grande museo generalista. Da noi il museo è in ogni luogo. L’Italia è un museo diffuso... all’ombra di ogni campanile. È il riflesso della nostra storia fatta di cento capitali. Noi storici dell’arte questo lo sappiamo bene, altri probabilmente non lo sanno».
Uno dei cavalli di battaglia della proposta del ministero è che una gestione economicamente efficiente costituisce anche un moltiplicatore occupazionale.
«È davvero una differenza di prospettive. Ma il vero moltiplicatore è dato proprio dalle caratteristiche tipiche della nostra storia e della nostra cultura: è quel misterioso e fortissimo valore aggiunto che si attacca a tutto ciò che ha a che fare col made in Italy. Questo è il vero moltiplicatore occupazionale generato dal nostro patrimonio culturale: il bello diffuso che diventa qualità del prodotto italiano».
Che consiglio si sente di dare al ministro?
«Gli direi (gliel’ho già detto di persona) di mettersi tutti intorno a un tavolo per smontare e riscrivere una nuova idea di riforma, altrimenti è molto meglio lasciare le cose come stanno. Vede, il più grande ministro dei Beni Culturali che abbiamo avuto, Giuseppe Bottai, per la sua riforma del 1939 raccolse intorno a sé i migliori esperti e storici dell’arte, da Cesare Brandi a Roberto Longhi a Giulio Carlo Argan. In Italia, fin da Vasari, la vera coscienza storica e critica del territorio l’hanno avuta gli storici dell’arte».
Abbiamo detto degli oltre 5 milioni di visitatori del polo fiorentino, ma i Musei Vaticani quanti visitatori hanno?
«Per la prima volta quest’anno chiuderemo oltre i 6 milioni».
Un successo.
«Ma è una cifra che ritengo pericolosa. Dal prossimo anno dobbiamo pensare a una crescita zero: punte di 30 mila visitatori al giorno costituiscono una pressione antropica che può mettere a rischio la conservazione nel tempo di una struttura come questa. A metà settembre faremo una conferenza stampa per annunciare la realizzazione del nuovo impianto di climatizzazione e illuminazione della Cappella Sistina, che è stato realizzato per depurare l’aria da tutti gli agenti esterni introdotti dal numero esorbitante dei visitatori e che in prospettiva potrebbero avere un impatto devastante sugli affreschi di Michelangelo. È costato 3 milioni di euro (tutti coperti da sponsor) e verrà inaugurato il 31 ottobre, vigilia di Ognissanti, data in cui Giulio II inaugurò gli affreschi della Cappella. Per l’occasione il 30 e il 31 ottobre si terrà un convegno internazionale che significativamente si intitola: “Nuovo respiro e nuova luce nella Cappella Sistina”».