Dopotutto è l’ideale che la prima italiana di Become Ocean di John Luther Adams avvenga ai piedi delle Dolomiti, vette che decine di milioni di anni fa erano il fondo del mare. «La vita è nata dall’oceano. Con lo scioglimento dei ghiacci e l’aumento di livello dei mari, l’uomo prima o poi tornerà, letteralmente, a diventare oceano»: così il compositore statunitense, classe 1953, emerso come uno degli artisti più importanti del nuovo secolo, scrive all’inizio della partitura che verrà eseguita questa sera a Bolzano dall’Orchestra Haydn diretta da Francesco Bossaglia, evento di apertura del festival Transart. Become Ocean (2013), premiato con il Pulitzer nel 2014 e un Grammy nel 2015, nasce dall’esperienza dell’oceano Pacifico che si abbatte con implacabile costanza sulla terra dell’Alaska, dove il comp ositore ha vissuto dal 1978 al 2014. La bellezza terribile della natura, ma anche l’influsso sulla natura delle azioni umane: Alex Ross l’ha definita «la più dolce Apocalisse della storia della musica».
Adams, nella storia della musica sono molti i brani dedicati al mare. Become Ocean come si colloca in questa sequenza? E come se ne distacca?
«Sono un compositore, non uno studioso, lascio perciò agli altri il compito di dire come il mio lavoro si inserisca nella storia. Ma mi rendo conto che Become Ocean è diverso da gran parte dei pezzi sul mare, come La Mer, perché non ne dipinge un’immagine. In questa musica voglio creare un oceano di suono che possa portare l’ascoltatore a uno stato d’animo “oceanico” ».
Per ottenere questo effetto Become Ocean si basa su una struttura musicale molto complessa. Ce ne può parlare?
«L’organico è composto in realtà da tre differenti ensemble, ognuno caratterizzato da una propria colorazione strumentale e armonica, come di una propria velocità. Lungo tutto il pezzo, onde di suono si innalzano e crollano su ritmi costanti differenti. Ci sono tre momenti in cui tutte le onde raggiungono la cresta insieme, in uno tsunami gigante di suono. E due in cui tutti e tre gli ensemble si riducono a un sussurro».
Nell’era della globalizzazione quanto conta ancora il luogo dove si crea? E quanto la sua musica dipende dal suo essere “americano” e dalla wilderness?
«Sebbene io non pensi a me stesso o alla mia musica come “americana” in nessun senso nazionalistico o patriottico, la mia vita e il mio lavoro sono profondamente radicate nel suolo del Nord America. Ma voglio essere un cittadino della Terra. E spero che la mia musica possa avere significato molto al di là dei luoghi dove è nata. Per gran parte della mia vita creativa ho scritto musica in Alaska. Più di recente ho composto nel deserto di Sonora, in Messico. Questi sono i luoghi dove mi sento a più diretto contatto con le fonti della mia musica. Alaska e Messico sono le mie case. L’esperienza e l’ideale della wilderness sono vicini al cuore del mio lavoro, forse ancor più che se io fossi un compositore europeo. Ma come dice lo scrittore Barry Lopez, “il paesaggio è la cultura che contiene tutta le culture umane”. E ciò che noi a volte chiamiamo “natura” è la fonte definitiva di tutto ciò che noi, animali umani, siamo e facciamo, in qualunque luogo su questa terra».
Esiste, però, una “musica americana”?
«Quando penso alla “musica americana”, penso al blues del delta del Mississippi. Penso al jazz. Al rock’n roll e all’hip hop. Penso anche a Charles Ives e Edgar Varése, Ruth Crawford e Henry Cowell, Harry Partch e Lou Harrison, John Cage e Morton Feldman, Conlon Nancarrow, Pauline Oliveros e James Tenney. Questi compositori dallo spirito indipendente sono la mia famiglia musicale. Ma penso anche al canto del tordo eremita e al richiamo del gufo boreale. Penso al vento cantare attraverso la tundra o il deserto. Penso al ruggito delle cascate e dei ghiacciai che si schiantano nel mare. Alla musica del paesaggio americano in sé».
La musica colta del ’900 è stata divisa in “fazioni”. Lei come si poneva?
«Quando ero giovane, c’erano conflitti furiosi tra coloro che credevano che la musica dovesse essere rigorosamente intellettuale e coloro che credevano che il suono della musica fosse la cosa più importante. Io ho rifiutato di fare quella scelta. Non ho mai capito perché la musica non potesse essere intellettualmente ermetica e nello stesso tempo avere un impatto sonoro da lasciare senza fiato».
È possibile che la sua musica definisca uno “spazio” piuttosto che un “tempo”?
«Per me la musica tratta tutta del Suono e dello Spazio. Questi sono gli elementi compositivi davvero fondamentali per me. Quando ero più giovane, avrei anche detto che la musica tratta del Tempo. Ma nella mia musica più recente, come dice Samuel Beckett, “il Tempo si è trasformato nello Spazio, e non ci sarà più Tempo”. Ciò non arriva da nessuna visione apocalittica di tipo religioso, quanto piuttosto dalla mia esperienza, lunga quanto la vita, degli spazi in espansione dell’Alaska e del West americano».