
Elisabeth Åsbrink - Eva Tedesjo
Partendo dal ritratto di Victoria Benedictsson, una delle scrittrici nordiche più moderne e interessanti dell’Ottocento, la scrittrice e giornalista Elisabeth Åsbrink, con il suo ultimo libro, Il mio grande, bellissimo odio (Iperborea, pagine 480, euro 20,00) restituisce una riflessione su emancipazione femminile, creatività e autodeterminazione. Nel precedente libro, Abbandono, Åsbrink aveva raccontato tre generazioni di donne con una prospettiva a cavallo tra dimensione personale e affresco storico, e qui in qualche modo fa lo stesso, relazionandosi nuovamente con la storia: Victoria Benedictsson è stata infatti una delle voci più importanti dell’Ottocento svedese – autrice di romanzi, racconti e opere teatrali firmati con lo pseudonimo maschile di Ernst Ahlgren – fino al tragico epilogo, con il suicidio a soli trentotto anni. Åsbrink in questo libro scava tra diari, lettere e scritti privati, riscoprendo un’intellettuale a lungo dimenticata, con un romanzo biografico in cui la sua voce si mescola a quella della protagonista.
Come è nata l’idea del libro?
«È stata la pandemia. Avevo iniziato un libro che richiedeva ricerche in Germania e quando è arrivata la pandemia non ho più potuto viaggiare. Per cui avevo bisogno di un progetto che, come dire, potessi seguire con il materiale che avevo a disposizione in Svezia. È presto diventato il mio mondo durante l’isolamento. Passavo il tempo con Victoria, Strindberg, Brandes. Ero in ottima compagnia».
Quindi prima non conosceva Victoria Benedictsson?
«Sapevo di lei per via del suo suicidio, ma non molto della sua vita. E credo che in Svezia le persone sappiano che ha concluso la sua vita in modo molto drammatico, ma non conoscono il contesto e non sanno che donna fantastica fosse».
Come è cambiato il suo rapporto con lei dopo aver scritto la biografia?
«Penso che la sua figura sia interessante sotto molti aspetti: prima di tutto si tratta di una donna forte. Tuttavia era sola, perché all’epoca non c’era un’idea femminista più collettiva. Credo questo sia un aspetto interessante oggi, mentre siamo tutti così ossessionati dall’individualismo. Un altro aspetto è, naturalmente, il contesto in cui voleva affermarsi come artista. Si trattava di un momento di trasformazione nella società moderna che conosciamo oggi. La religione faceva alcuni passi indietro e altri principi e idee iniziavano a governare la vita delle persone, e questo ha portato a una crisi esistenziale. Se Dio è morto, ci si chiedeva, cosa resta? Qualcuno diceva la scienza, qualcun altro la solitudine, e tutte e due sono verità. Victoria era al centro di questo cambiamento, ma dubitava anche del cambiamento. È questa ambivalenza a renderla così interessante».
A proposito di Dio, nel prologo lei scrive: «Cosa succede agli esseri umani quando Dio muore? Diventano più liberi, più soli».
«Credo questa sia diventata l’identità di gran parte della Scandinavia; viviamo in Paesi laici, con molta libertà in molti modi diversi, ma anche con un senso di solitudine e non appartenenza. Si tratta quindi di una libertà esistenziale, ma anche di una solitudine esistenziale. Nel libro faccio risalire le radici di questo cambiamento al liberalismo, ma anche a Kierkegaard, che era cristiano e credeva di avere una fede forte, ma credeva anche che Dio e l’essere umano fossero in comunicazione. Non era interessato alla Chiesa come intermediaria».
In questo libro stilisticamente ci sono alcune similitudini con il precedente, Abbandono, ma scrivere una biografia porta su molte altre strade. Che lavoro ha fatto sul testo?
«Quando ho iniziato a fare ricerche ho letto i testi di Victoria ma anche i precedenti scritti su di lei, e ho potuto vedere come il biografo sia sempre influenzato dal suo tempo. Quindi, quando scrivo, devo essere consapevole che una biografia è sempre anche un ritratto del biografo. E di questo deve essere consapevole anche il lettore. Non esiste una biografia oggettiva, perché le scelte, il punto su cui ci si concentra, dove si sceglie di stare, sono dettate dalla propria esperienza. Scrivendo questo libro non ho imparato solo a conoscere meglio Victoria, ma anche a conoscere meglio me stessa».
Quanto è importante per lei essere parte di ciò che scrive?
«Ogni buon libro nasce da una pressione interiore. Si possono scrivere libri motivati da una pressione esterna, ma è più giornalismo, è più un modo per avviare un dibattito. Credo che tutti i miei libri siano nati da una forte pressione interiore. In Abbandono volevo scrivere la storia delle donne della mia famiglia, per capire come fossi io a partire dalla comprensione di mia mamma e mia nonna. La cosa curiosa è che all’inizio pensavo che questo su Victoria sarebbe stato un libro scritto per pressione esterna, ma è diventata una pressione interna, perché è diventata la storia di una donna che voleva essere un’artista, che voleva essere una scrittrice, e per diventare tale doveva liberarsi dalla femminilità, dalla maternità. Si tratta quindi di una questione di libertà e, come scrittrice, sono processi con cui sono spesso stata in contatto».
Mi può fare un esempio?
«Devo sempre fare scelte quando scrivo. Quando ho scritto Abbandono ho dovuto scegliere tra essere una brava figlia o essere una brava scrittrice, e ho scelto la seconda; questo ha avuto conseguenze per la mia famiglia, per il rapporto tra me e mia madre, che non è migliorato con quel libro. Per questo penso che Victoria sia così moderna: tocca punti di pressione che sono presenti in ogni artista e per molte donne, che devono fare ogni giorno queste scelte. Essere una brava figlia o essere brava nel mio lavoro? Essere una buona madre o essere brava nel mio lavoro?»
Non vale anche per gli uomini?
«Credo che anche gli uomini debbano fare scelte, ma forse per le donne sono un po’ più difficili».
Torniamo alla scrittura. Lei sceglie un linguaggio lirico e accurato. Che lavoro fa sulle parole?
«Leggo molta poesia. E poi uso i sensi, credo che ogni scrittore, ogni artista, debba usare tutti i sensi a disposizione. Infine si tratta, come diceva l’Oracolo di Delfi, di conoscere sé stessi, i propri impulsi e desideri, i pensieri cattivi e quelli buoni. E bisogna essere consapevoli del mondo, del contesto che ci circonda. Possiamo parlare di un testo, di arte, foto, natura, ma bisogna essere sempre aperti, registrare e conoscere. Ed è questo, credo, il modo in cui lavora ogni persona creativa. Si conosce sé stessi e si cerca di conoscere il mondo».
Parliamo dell’odio del titolo.
«Victoria lo chiamava odio, io la chiamerei rabbia, ed è ciò che usava come carburante. Questo odio andava in due direzioni, una distruttiva e una costruttiva: un odio diretto a sé stessa, perché vedeva l’essere donna come debo-lezza, e questo forse l’ha portata al suicidio; e poi l’altro odio, quello che ha usato come motore per superare gli ostacoli e diventare un’artista, per essere coraggiosa, per fare cose che a quel tempo non facevano molte donne».
Al via domani il festival I Boreali
Da domani a domenica Milano ospiterà l’11ª edizione de “I Boreali – Nordic festival”, manifestazione organizzata dall’editore Iperborea. Al Teatro Franco Parenti e al Cinemino di Milano si alterneranno scrittrici e scrittori, laboratori, nordic brunch, appuntamenti per bambini, dibattiti, film e approfondimenti dal Nord Europa. La serata di apertura, domani alle 18.30, sarà con Niviaq Korneliussen, scrittrice e attivista groenlandese che dialogherà con Vincenzo Latronico su La valle dei fiori (Iperborea 2023), primo romanzo groenlandese a vincere il premio del Consiglio nordico. Tra gli ospiti della tre giorni, ci saranno Björn Larsson, Malachy Tallack, Andri Snær Magnason, Elisabeth Åsbrink con Federica Manzon, Ann-Helén Laestadius, scrittrice e giornalista di origine sami, e molti altri. Spazio, infine, anche a cultura e letteratura nordica in collaborazione con l’Istituto culturale nordico. Gli incontri principali saranno trasmessi anche in live streaming e su YouTube.