sabato 3 giugno 2023
Cantautore, musicista, produttore e ora attore nella rock opera “Lazarus” il leader degli Afterhours racconta il suo percorso: «Negli anni 90 noi indipendenti pensavamodi cambiare la società»
Manuel Agnelli, 57 anni, protagonista della rock opera di David Bowie "Lazarus"

Manuel Agnelli, 57 anni, protagonista della rock opera di David Bowie "Lazarus" - Foto di Fabio Lovino

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Con Manuel Agnelli inauguriamo una serie di interviste-ritratto che proseguiranno per tutta l’estate. Si tratta di personaggi della musica italiana che consideriamo “Irregolari” per via della loro storia umana ed artistica che li ha sempre distinti e visti andare in direzione ostinata e contraria. Uomini e donne di spettacolo, accomunati dal filo conduttore dell’aver compiuto, nel tempo, delle scelte a volte anche impopolari pur di mantenere sempre fede alla propria cifra creativa che li rende appunto degli “irregolari” nel senso più nobile della parola, cioè fuori dagli schemi e quindi assolutamente originali.

Manuel Agnelli è uno di quegli artisti poliedrici e orgogliosamente indefinibili, che ha percorso nella sua carriera strade personali e alternative. Cantautore, musicista e produttore discografico, fondatore e frontman della rock band indipendente Afterhours, a 57 anni il milanese Agnelli sta vivendo una stagione densa di soddisfazioni. Innanzitutto per la pubblicazione dell'apprezzato album Ama il prossimo tuo come te stesso, il primo da solista (il singolo La profondità degli abissi ha vinto un Nastro D'Argento e un David di Donatello); successivamente per il suo debutto a teatro come protagonista dell'opera rock Lazarus di David Bowie con la regia di Walter Malosti. Prodotto da Ert/Teatro Nazionale, dopo il Teatro Bonci di Cesena e il Piccolo Teatro Strehler di Milano, l’applaudito spettacolo arriva al Teatro Carignano di Torino dal 6 al 18 giugno e al Teatro Piccinni di Bari il 22 e 23 giugno. Agnelli sarà poi in tour estivo: 1 luglio Palermo, 8 luglio Verona, 15 luglio Pavia, 17 luglio Roma, 18 luglio Rimini, 4 agosto Taranto, 7 settembre Milano al Carroponte.

Manuel Agnelli, come nasce questa sua capacità di passare con naturalezza dalla musica alla tv e al teatro?

Sono cresciuto in una Milano nei primi anni 80 molto interessante. Ci trovavamo pittori, musicisti, designer, architetti, scrittori. Sono abituato ad avere una visione molto aperta anche a cose lontane dal mio ambito. Però ho scelto di fare il musicista che è la cosa che mi piace di più. Sono molto curioso e non mi piace ripetermi. Amo cambiare, ma io non chiedo mai, aspetto che mi chiedano. E, per fortuna, mi chiedono sempre.

Ma il Manuel ragazzo che cosa sognava di fare?

Non avevo dei piani precisi. Mio padre era un consulente fiscale che suonava per passione. Il sabato e la domenica lo vedevo diventare un’altra persona, mi piaceva tanto questa cosa. Mia mamma era un’insegnante con la passione della pittura. Io ho iniziato a studiare pianoforte classico a 6 anni: dato che suonicchiavo gli strumenti di mio padre, mia madre decise di farmi seguire delle lezioni. La prima band l’ho fondata a 12 anni, facevamo le cover dei Kiss e io cercavo già di suonare la chitarra.

Aveva già la passione per il rock da piccolo…

Il primo disco che ho comprato è stato Abbey Road dei Beatles. Dopo la passione per l’hard rock, con la band suonavamo il progressive, i Genesis e i Jethro Trull e poi nell’80 ho avuto la folgorazione per i Joy Division e il post punk è diventato il mio riferimento. Nel 1982 mi sono trasferito a Londra per lungo tempo e lì è cambiato tutto.

Poi nascono gli Afterhours che volevano essere alternativi a cosa?

Noi eravamo quattro gatti, volevamo provocare il pubblico per eccesso di volume, per eccesso di arrangiamento. Lo scopo era provocare una reazione, il contrario di oggi in cui domina il culto del consenso. Noi avevamo il culto del dissenso. Prima di noi c’era stata la Controcultura degli anni 70, i centri sociali, i piccoli festival e i club. Poi negli anni 90 la scena indipendente è diventata quasi fenomeno di massa. Noi come Afterhours siamo passati dall’underground più estremo alla massa. Ci sembrava ci fosse un cambiamento culturale e di costume nel nostro Paese, che c’è stato, ma è durato poco. All’epoca tutto era alternativo: al sistema di comunicazione ufficiale, alle major e alle televisioni si contrapponeva un sistema di centinaia di concerti autogestiti, di radio indipendenti e di tv private fino all’arrivo di Mtv, purtroppo…

Lei ha prodotto anche tanti talenti grazie alla sua etichetta Vox Pop e col suo Tora! Tora! Festival.

Oggi a livello di produzione i giovani possono registrare da casa loro. Noi andavamo a stampare i dischi coi cartoni, dovevamo farci tutto da zero e questo mi ha reso più facile rapportarmi con il mercato discografico. I ragazzi oggi purtroppo aspettano che qualcuno si accorga di loro. Io ho aperto la mia prima casa discografica a 19 anni e noi ci organizzavamo i concerti da soli, mentre gli altri ragazzi aprivano locali, giornali musicali, radio. Tutto è finito con la fine della nostra generazione, quella dopo ha usato quello che avevamo portato a casa noi. Sono stati distruttivi, consumando tutto e snobbandoci.

Anche il mercato globale e l’avvento del web hanno cambiato tutto?

Da una parte c’è un caos che potrebbe essere positivo, andavano scardinate alcune cose, dall’altra chissà cosa succederà. Il fattore culturale sta cambiando in peggio. Oggi c’è un gigantismo cosmico per cui devi fare i numeri, e non importa la qualità. E i ragazzi si muovono solo se vale la pena, fanno di tutto per il risultato, ma non fanno quello che vogliono davvero e poi si vede.

Lei comunque questi ragazzi li ha incontrati come giudice a X Factor.

Abbiamo trasmesso poco alle generazioni successive sul come fare le cose, su come sviluppare una capacità analitica al di là dei numeri. Io cerco di fare il piccolo divulgatore della mia esperienza. X Factor è stato la grande occasione di divulgare, della gara non mi è mai importato. Racconto musicale che ho fatto anche con il programma divulgativo di Rai 3 Ossigeno e ora col podcast Leoni per Agnelli su Radio 24.

Come mai la scelta di diventare solista?

E’ una strada che mi galvanizza, mi porta a uscire dal brand Afterhours: è un onore essere un punto di riferimento, ma questo può diventare una gabbia dorata per un musicista. Io faccio musica per fare quello che voglio nella vita, non sono prigioniero. Ora sto preparando il secondo album.

Abbiamo anche scoperto il suo talento di attore nella serie Django di Sky e nella rock opera Lazarus.

Lazarus è una grande soddisfazione e per me è una cosa nuova. Io non ho chiesto di fare l’attore, è capitato ed è stato bravo il regista Walter Malosti a trovare una strada recitativa che potesse funzionare. Inoltre ho la stessa tessitura vocale di Bowie, ma ho cercato di rielaborare le sue canzoni in modo personale.

Ora parte il tour con le canzoni del suo primo album Ama il prossimo tuo come te stesso. Lei che rapporto ha col Vangelo?

Io sono ateo, ma ho una parte spirituale molto importante. Mia madre era una grande appassionata di Vangeli apocrifi. Per me Gesù Cristo appartiene alla nostra storia e ha una grandezza che va oltre alla religione stessa. E’ una di quelle persone che hanno cambiato il mondo in maniera definitiva. Per me Gesù è un punto di riferimento storico e sociale, un vero rivoluzionario. Il titolo dell’album è ancora contemporaneo per quello che succede, una frase che non è mai invecchiata perché non l’abbiamo mai applicata.

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