martedì 7 gennaio 2025
Trionfa “Emilia Pérez” del francese Audiard, girato in spagnolo e ambientato in Messico. In attesa degli Oscar, che saranno consegnati il 2 marzo prossimo a Los Angeles
Un frame del film “Emilia Pérez” di Jacques Audiard, che ha vinto quattro Golden Globe

Un frame del film “Emilia Pérez” di Jacques Audiard, che ha vinto quattro Golden Globe - -

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È l’anticamera degli Oscar. La prova generale del premio più prestigioso. Il test definitivo per cominciare a scommettere sui nomi che il prossimo 2 marzo stringeranno tra le mani la statuetta più ambita. Così sono definiti i Golden Globe, consegnati al Bevery Hilton Hotel di Los Angeles lo scorso 5 gennaio. Eppure questi riconoscimenti, giunti all’82esima edizione, espressione delle preferenze della stampa estera e segnale di tendenze non trascurabili, si collocano da qualche tempo a questa parte a metà strada tra le ambizioni più autoriali degli Efa, gli Oscar europei, e i tentativi degli Academy Awards di fare in modo che i suoi premi restino negli States, anche a costo di dimenticare film decisamente più meritevoli e meno ingabbiati dalle cosiddette formule di inclusività e correttezza politica che, a detta di molti artisti, stanno spegnendo la creatività di tanto cinema made in Usa.

Era questo infatti l’allarme lanciato da Sean Penn qualche settimana fa dal Festival di Marrakech, dove ha accusato gli Oscar di codardia e ipocrisia, attribuendo alle sue scelte pavide e conformiste la progressiva scomparsa di una pluralità di voci capace di garantire la libertà dell’artista e una visione più completa e complessa sul mondo. In attesa di scoprire se i timori di Penn verranno confermati o meno, i Golden Globe hanno dato intanto un segnale preciso imboccando la via del cinema d’autore di matrice europea, quello che negli ultimi festival internazionali ha dato il meglio in termini di originalità, sperimentazione e qualità. E confermando dunque alcuni cambiamenti in atto ormai da tempo.

Cominciamo con Emilia Pérez del francese Jacques Audiard (dal prossimo giovedì nelle nostre sale con Lucky Red), che dopo aver vinto a Cannes per la sceneggiatura e l’intero cast femminile, ha conquistato cinque Efa lo scorso 7 dicembre. Candidato a ben dieci Golden Globe, ne ha vinti quattro, per la miglior commedia/musical, per la miglior attrice non protagonista, Zoe Saldana, per la canzone El mal e come miglior film internazionale. Niente da fare dunque per Vermiglio di Laura Delpero, Gran Premio della Giuria a Venezia, ma l’apprezzamento ricevuto oltreoceano è un traguardo straordinario di cui si deve andare molto fieri.

Considerato il miglior film sulla Croisette quest’anno (nonostante la Palma d’oro sia andata all’americano Anora), il film di Audiard, girato in lingua spagnola e ambientato in Messico, è un perfetto esempio di come sarà sempre più difficile in futuro stabilire confini cinematografici precisi, che nei film si confondono felicemente con risultati sorprendenti e fecondi. Sarebbe peraltro riduttivo definire l’opera come un musical su un feroce narcotrafficante messicano che decide di diventare una donna: Emilia Pérez è un film che mescola dramma, noir, musica e commedia (rendendo sempre più difficile, quando non impossibile, la separazione tra generi cinematografici) per parlare di redenzione e rinascita, di tutto il male ma anche del bene che gli esseri umani sono in grado di compiere e del coraggio di scegliere il primo rinnegando il secondo.

Un lavoro decisamente fuori dagli schemi («Grazie per aver celebrato questa idea di follia», ha commentato il regista), destinato forse a seguire le orme del coreano Parasite, che trionfò agli Oscar 2020 con sei statuette, assestando una bella batosta al cinema americano e segnando una vera e propria svolta nella storia degli Academy Award. Vedremo cosa accadrà il prossimo marzo (le cinquine verranno annunciate il prossimo 17 gennaio), ma nel frattempo una cosa è chiara: Golden Globe e Oscar non sono più la trionfalistica e spesso stucchevole celebrazione del cinema americano, anche perché quel cinema grandioso e travolgente che giustamente collezionava statuette e ovazioni non esiste più.

E anche il sogno americano assume contorni decisamente più inquietanti, come dimostra The Brutalist di Brady Corbet (dal 6 febbraio in Italia con Universal), che dopo il Leone alla regia alla Mostra di Venezia, vince tre Golden Globe, diventando l’altro grande protagonista della serata. La storia (ispirata da scrittori come di W. G. Sebald e V. S. Naipaul), è quella di un architetto ungherese della Bauhaus che, dopo essere sopravvissuto all’Olocausto, emigra negli Stati Uniti in cerca di successo e fortuna.

Miglior film drammatico, The Brutalist, che sfida lo spettatore con una durata di 3 ore e 35 minuti, vince anche per la regia e l’interpretazione di Adrien Brody, dimostrando come sguardo personale e basso budget siano oggi preferibili alla standardizzazione creativa imposta dagli studios. Un segnale preciso arriva anche dai premi alle attrici, che ribaltano stereotipi anagrafici e geografici: le migliori protagoniste sono infatti la 62enne Demi Moore che nel body horror di Coralie Fargeat, The Substance, ci fa riflettere sull’autodistruttiva ossessione per la giovinezza, e la grande signora del cinema brasiliano, Fernanda Torres, che in Io sono ancora qui di Walter Salles (premio per la sceneggiatura a Venezia, coprodotto con la Francia e nelle nostre sale dal 30 gennaio con Bim) interpreta la moglie di un uomo vittima dell’arbitraria violenza della dittatura militare.

La Torres batte le due superfavorite, la sopravalutatissima Nicole Kidman di Baby Girl, già Coppa Volpi a Venezia, e Angelina Jolie, che interpreta la Callas in Maria, ma anche la Tilda Swinton de La stanza accanto di Pedro Almodovar e la Kate Winslet fotografa di guerra in Lee di Ellen Kuras. Sebastian Stan, miglior attore brillante per A Different Man, dove interpreta un uomo affetto da una neurofibromatosi che gli deforma il viso (ruolo per cui ha vinto l’Orso alla Berlinale), conferma invece la tradizionale predilezione per le interpretazioni “estreme”, ma anche grande attenzione a quei titoli che non sono stati premiati al botteghino: il film ha infatti incassato poco più di un milione di dollari. L’attore era candidato anche per il ruolo di Donald Trump interpretato nel controverso The Apprentice di Ali Abbasi sulle origini dello spregiudicato tycoon, anche questo un flop al botteghino americano che ha rischiato addirittura di non uscire dopo le violente minacce del rieletto presidente degli Stati Uniti. Anche i titoli che restano nell’ombra, a ben guardare, raccontano una storia.

Pure il Golden Globe per il miglior non protagonista, sancisce una rinascita, quella di Kieran Culkin (la baby star di Mamma, ho perso l’aereo!) per il road movie A Real Pain di e con Jesse Eisenberg, mentre la supremazia disneyana, sempre più spesso messa in crisi negli ultimi anni, è battuta dal film di animazione indipendente Flow – Un mondo da salvare del giovanissimo lettone Gints Zilbalodis, che racconta di un nuovo diluvio universale di una nuova arca della salvezza. La migliore colonna sonora originale infine è quella di Trent Reznor e Atticus Ross per Challengers di Luca Guadagnino.

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