martedì 7 gennaio 2025
Secondo un saggio di Mariano Croce su democrazia militante e diritti fondamentali, gli stati liberali rischiano ancora oggi il contagio di bacilli autoritari
In Germania, in Austria e in tutta Europa crescono le formazioni politiche che strizzano l'occhio a modelli autoritari di governo

In Germania, in Austria e in tutta Europa crescono le formazioni politiche che strizzano l'occhio a modelli autoritari di governo - Fotogramma

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Dopo l’ingresso dell’Armata rossa a Berlino, il 30 aprile 1945 una pattuglia di militari sovietici, imbattutasi in Carl Schmitt, lo arrestò e lo sottopose a ore di interrogatorio. Per chiarire quale fosse stato il suo rapporto con il nazionalsocialismo, il giurista disse loro che – se davvero intendevano comprendere la situazione – dovevano tenere presenti gli esperimenti condotti alcuni decenni prima da Max Pettenkofer. Secondo quello scienziato, il fatto che un individuo avesse il terrore di una determinata malattia era più rilevante del bacillo che la faceva insorgere. Per dimostrare la propria tesi, Pettenkofer, dinanzi ai propri studenti, bevve d’un fiato un bicchiere d’acqua contenente una coltura di batteri di colera, senza poi ammalarsi. «Io ho bevuto il bacillo nazista, ma senza infettarmi», disse dunque Schmitt ai suoi interlocutori. E, a quanto raccontano i biografi, li convinse, tanto che l’interrogatorio si concluse con grandi risate e con il rilascio del giurista. Alcuni mesi dopo, nuove indagini attendevano però Schmitt. Il 26 settembre venne infatti arrestato e internato a Berlino Ovest. L’accusa che gli veniva rivolta era di essere stato il Kronjurist del regime, il «giurista di corte» del nazionalsocialismo. L’inchiesta si concluse con il rilascio nell’ottobre 1946, ma anche in seguito il pensatore subì nuovi interrogatori a Norimberga, che pervennero comunque al medesimo risultato dei precedenti.

Tra i principali accusatori che nel 1945 determinarono l’arresto di Schmitt da parte degli Alleati, un ruolo di spicco era ricoperto da un suo ex-collega, Karl Loewenstein: un giurista di Monaco che, a causa delle origini ebraiche, era dovuto fuggire negli Stati Uniti, dove aveva insegnato prima a Yale e poi all’Amherst College, in Massachusetts. Prima di tornare in Germania nel 1945, come consulente del governo militare alleato, Loewenstein aveva dedicato diversi lavori all’indagine di alcuni aspetti del regime hitleriano. Ma furono soprattutto due articoli apparsi nel 1937 sulla American Review of Political Science ad aprire una discussione, che oggi viene riscoperta. In quegli scritti – ora proposti in italiano nel volume Democrazia militante e diritti fondamentali, a cura di Mariano Croce (Quodlibet, pagine 120, euro 15,00) – il giurista e politologo tedesco tornava a riflettere sulla caduta della Repubblica di Weimar. La tesi di Loewenstein era che gli Stati liberali fossero indifesi dinanzi a movimenti che si proponevano di abbattere la democrazia. La democrazia, per difendersi da aggressivi nemici interni, doveva dunque farsi «militante», dotarsi cioè di contromisure adeguate alla minaccia.

Piuttosto paradossalmente, quello che dopo la guerra sarebbe diventato un deciso accusatore di Schmitt, finiva per proporre una soluzione molto “schmittiana”. La democrazia militante doveva infatti ricorrere a poteri di emergenza, alla messa fuori legge delle forze ritenute pericolose, persino alla limitazione della libertà di pensiero e di associazione. «Non si possono nutrire scrupoli di natura costituzionale sulla necessità di limitare i fondamenti della democrazia al fine di preservarli», scriveva per esempio Loewenstein. «Le democrazie europee», si legge inoltre nelle sue pagine, «si trovano in un virtuale stato d’assedio, il quale, anche nelle Costituzioni democratiche, implica la concentrazione dei poteri nelle mani del governo e la sospensione dei diritti fondamentali». E diversi Stati, osservava il giurista, si stavano effettivamente dotando di strumenti di quel genere.

Riletti oggi, gli scritti sulla democrazia militante del giurista tedesco non possono che apparire segnati dal torrido clima del periodo. E risultano anche piuttosto inquietanti, nella misura in cui gli “schmittiani” poteri di eccezione di cui la democrazia dovrebbe dotarsi per difendersi dalle minacce autoritarie sembrano privarla di alcuni suoi elementi fondamentali. Per quanto le argomentazioni di Loewenstein appaiano spesso troppo “militanti”, e anche piuttosto rozze dal punto di vista dottrinario, il problema che egli poneva in quei saggi era effettivamente cruciale. Le sue osservazioni riprendevano peraltro – più o meno implicitamente – la critica che Schmitt aveva indirizzato all’illusione liberale di poter ridurre la dinamica parlamentare a un insieme di procedure formali, prive di un custode in grado di far valere la decisione sovrana sullo stato di eccezione. Anche per Loewenstein la democrazia non poteva in effetti affidarsi solo alle procedure, ma doveva essere protetta da custodi, in grado di intervenire nel caso in cui le regole di fondo venissero minacciate.

Le costituzioni nate in Europa dopo il 1945 prevedono alcuni presidi che, almeno in parte, si avvicinano alla «democrazia militante» di Loewenstein. Ma le riflessioni del giurista di Monaco, che forse alcuni anni fa sarebbero apparse come reperti archeologici, acquistano oggi una nuova rilevanza.

Le minacce alla democrazia nel XXI secolo hanno un volto molto diverso da quello del «secolo breve», ma non sono meno insidiose, anche perché assumono forme subdole, che corrono per esempio attraverso i flussi dei social media, attraversando i confini degli Stati e aggirando i vincoli legislativi. Secondo molti analisti, si tratta di una delle forme della “guerra ibrida”, che opera nella sempre più ampia “zona grigia” tra guerra e pace. E proprio per questo, anche oggi, come faceva Loewenstein negli anni Trenta, dobbiamo chiederci come proteggere la democrazia senza farla diventare troppo simile agli avversari da cui deve difendersi. Perché – diversamente da quanto suggeriva l’ottimismo di Pettenkofer – non possiamo confidare che i quasi ottant’anni trascorsi dalla caduta del fascismo e del nazionalsocialismo debbano necessariamente preservare le nostre democrazie dal rischio di essere contagiate da nuovi bacilli autoritari.

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