«Protocol no. 90/6», l’opera dei Masbedo all’Archivio di Stato
Macerie. È una parola che emerge lenta e poi sempre più chiara. Anche quando è sepolta finisce per rimbombare, come il cuore rivelatore di Poe. Senza dubbio non era tra le parole chiave pensate da Manifesta, eppure finisce per risuonare forte. La “biennale nomade europea”, all’edizione numero 12, è approdata (felicemente) a Palermo, scelta come città-laboratorio «da cui partire – scrive la fondatrice e direttrice Hedwig Fijen – per analizzare i fenomeni di crisi e le trasformazioni geopolitiche in corso in Europa e nel mondo», in virtù della «complessità di questa città plasmata da diversità, continue migrazioni e ibridazioni».
Manifesta 12 è proiettata a raccontare una realtà fluida, trasversale, problematica e al fondo positiva. Vorrebbe (e in gran parte lo fa) raccontare “Il giardino planetario. Coltivare la coesistenza”, come dice il sottotitolo. Palermo era la grande città giardino, la morgana arabonormanna del paradiso. Macerie invece sono accumulo, discontinuità, relitto e residuo senza neppure la poesia della rovina. E oggi Palermo, al di là e persino ancor più in virtù dello sforzo di rinascita, nella sua straziante bellezza è maceria.
Perché Palermo non rimuove mai: accatasta. Non prova nemmeno a nascondere. Non è solo la questione delle macerie belliche, ancora presenti nel tessuto urbano, o di una condizione sociale e antropologica che si esprime, tra lacerazioni e splendori, in una forma-città vera fino all’ustione.
In maniera forse involontaria ma efficacissima, il connubio Manifesta-Palermo rivela come quella delle macerie sia una categoria, una condizione del presente e della storia. Accade anche grazie alla scelta della biennale di individuare le sedi in siti di norma non accessibili (da Palazzo Butera a Palazzo Forcella De Seta, da Palazzo Ajutamicristo a Palazzo Costantino, tutti di straordinario interesse talvolta fino al punto di soverchiare le opere esposte) e in gran parte in una condizione di “transito” perché in corso di restauro o perché più spesso sospese in attesa, con ferite e squarci come di una carcassa, moderno ritorno di quella intersezione di festa e morte propria del barocco.
Lo stato di macerie non è quello della memoria. La memoria prevede una rielaborazione del dato, un’opera di conservazione, una ricontestualizzazione, un rimontaggio in un nuovo sistema. La memoria contempla anche la possibilità della selezione e dell’oblio. Maceria è assenza di azione: è uno stato che non comprende ricostruzione né rimozione. È un passato che non passa.
Alcuni lavori – come New Palermo Felicissima di Jordi Comer alla Fondazione padre Messina – si concentrano sulla Costa Sud. Un tempo il lido elegante dei palermitani, ora al centro di un discusso piano di recupero, dagli anni 60 è stata devastata dallo smaltimento delle demolizioni del “sacco” urbanistico e dai veleni degli sversamenti abusivi, che l’hanno trasformata in un campo di macerie. E ciò che vi è stato costruito sopra (campi di calcio, concessionari...) è stato abbandonato e a sua volta si è ridotto in macerie.
Maceria è la collina di Pizzo Sella, sfregiata dagli scheletri della speculazione edilizio-mafiosa, al centro dell’intervento ambientale dello studio belga Rotor. Maceria ideologica è la Casa del Mutilato, intatta nel suo apparato di mistica fascista, al cui interno la spagnola Cristina Lucas racconta una storia di macerie, accumulando in sei ore sulla mappa del mondo tutti i bombardamenti del Novecento. Maceria è la riproduzione ad altissima definizione della Natività del Caravaggio nell’oratorio di San Lorenzo, rubato dalla mafia nel 1969 (all’interno l’installazione di Nora Turato, rumorosa e opprimente, è purtroppo una delle cose più brutte di tutta Manifesta).
È un’apocalittica visione di macerie quella offerta dai Masbedo all’Archivio di Stato in Protocol no. 90/6, installazione giustamente celebrata come uno degli apici della biennale e che purtroppo è rimasta visibile per pochi giorni (la Soprintendenza ci pensi bene e si trovi il modo per renderla permanente). Durante le ricerche per Videomobile (allestito a Palazzo Costantino, e meno interessante) il duo ha “trovato” un’ala dell’archivio in cui migliaia di faldoni e registri, rimasti sommersi dai calcinacci della Seconda guerra mondia-le, sono stati ridotati di tetto ma non sono stati mai più né aperti né inventariati né quasi ripuliti. È la storia della città che resta lì, inerte e inattingibile, ridotta a un mare di ruderi, metafora di una città amletica sulla quale – da un grande ledwall – il pupo di Vittorio De Seta estende il proprio sguardo come uno sconsolato pantocratore.
Macerie. Quando la mafia volle assassinare Falcone, trasformò in macerie un intero tratto di autostrada. Sebbene rimosse sono ancora lì, detrito della coscienza, non si può non vederle ogni volta che si passa da Capaci. E c’è paradossalmente una dimensione di maceria anche nei luoghi dell’antimafia – le lapidi, i monumenti, i luoghi – come li racconta Yuri Ancarani all’oratorio della Madonna del Rifugio dei peccatori pentiti: non tanto per una questione di degrado, assente, ma per una fatica a trasformarsi in memoria intima, allontanata tanto dalla retorica delle iscrizioni quanto dalla pratica dei selfie.
Ancarani abbina, come in un dittico, i luoghi dell’antimafia a Whipping Zombie, film sul rito di un villaggio di pescatori ad Haiti in cui i giovani maschi, attraverso la trance, rievocano il passato schiavista trasformandosi in “zombie” e frustandosi a vicenda. L’esperienza della schiavitù è una ferita così profonda nel corpo collettivo da dover essere rivissuta in quello fisico. Ma insieme, di nuovo, non riesce a diventare memoria (operazione che richiede uno stato di coscienza vigile). È una scoria che non può essere trattata.
Ma non è un problema solo dei Caraibi. La questione della migrazione è – e non poteva esserlo – uno dei temi portanti di Manifesta, affrontato nella versione più politica e con ampiezza a Palazzo Forcella De Seta. Anche i migranti che si accalcano alle mura dei nostri porti sono zombie. Zombie, come spiega un sociologo francese di origini antillane nel notevole video di Kader Attia The body’s legacies. The post-colonial body impiegandolo come metafora degli immigrati di seconda e terza generazione in Francia, è un corpo che sarebbe dovuto diventare invisibile e invece non scompare. Più che resistere, resta. Non può morire e non può vivere. Non può diventare memoria, sublimando la propria storia, e neppure può dimenticare. È maceria. Enorme, insopportabile, nauseabonda agli occhi della fortezza occidentale che custodisce ricchezze estratte dalla carne di quegli stessi corpi. Corpi che ora riemergono dal mare come all’interno delle città. Sono le macerie del nostro passato che vogliamo ignorare. E mentre noi come un tempo continuiamo a non riconoscere a questi uomini la proprietà di essere vivi, li condanniamo a essere le macerie anche del nostro futuro.
Palermo, sedi varie
MANIFESTA 12
Il giardino planetario. Coltivare la coesistenza
Fino al 4 novembre