martedì 25 marzo 2025
La prima figura femminile raccontata in Genesi è il "tu" che desta l'umanità dal sonno, è l'alterità che genera dialogo. Nelle Scritture, sono tanti i ruoli preziosi ricoperti da chi genera relazione
Eva e Adamo: nella Bibbia è la donna che “sveglia” l'uomo dal suo torpore

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La storia di Eva è inserita nelle narrazioni delle origini del mondo, di cui si parla nei primi tre capitoli di Genesi, in due racconti che attingono a tradizioni e fonti diverse, fissate e accostate dal redattore finale secondo un criterio di giustapposizione. Il nome della prima donna compare nella seconda narrazione (Gen2,4b-3,24) appartenente a una tradizione più antica rispetto a quella del primo racconto (Gen1,1-31): infatti, è uno scritto che tradisce un’elaborazione in linea con una cultura decisamente arcaica e androcentrica che considera la sola condizione del maschio Adamo, lasciando trasparire l’ambiente patriarcale nel quale è stato elaborato.

Al centro del giardino in Eden è collocato l’uomo, nato dalla polvere (Adamo significa terroso) e animato dal soffio vitale di Dio (la Ruah). Ma l’uomo è solo e non si riconosce negli animali: ha bisogno di un essere vivente con il quale entrare in comunione. Ed ecco che, con la plasticità dei racconti antichi, prende corpo la descrizione della nascita di Eva, il cui nome significa colei che suscita vita. Se, da una parte, il testo sacro dichiara la bontà di tutta la creazione, dall’altra la solitudine dell’uomo è presentata come unica condizione negativa. Ecco allora che Dio pensa a un tu che possa entrare in dialogo con Adamo, a un essere umano che viva in relazione, e dà vita a una donna, «un aiuto che gli corrisponda».

A una lettura superficiale può sembrare che questa creazione sia funzionale a coprire il vuoto dell’uomo. La ragione dell’esistenza della donna è di tenergli compagnia? Di salvarlo e liberarlo dalla solitudine? Indubbiamente, la storia dell’interpretazione considera l’esistenza della donna secondaria rispetto all’uomo, con un ruolo complementare. Il termine ‘ezer («aiuto») è stato inteso come il sostegno femminile che rende meno gravosa la vita del maschio, quasi che la donna debba essere una “badante qualificata” per soccorrere l’uomo nelle sue necessità. Eppure, quel termine nel testo sacro si riferisce a persone alla pari e mai subordinate. Addirittura, si attribuisce allo stesso Dio, quando è invocato come l’aiuto che sostiene («Ecco, Dio è il mio aiuto, il Signore mi sostiene», Sal 54,6) o quando interviene nel momento del bisogno: «A te grido, Signore, chiedo aiuto al mio Dio» (Sal 30,9). Non è forte, dunque, chi necessita di aiuto, bensì chi è in grado di prestarlo: «Poiché Egli libererà il bisognoso che grida, e il misero che non ha chi lo aiuti» (Sal72,12).

Eva, dunque, è il tu che sveglia l’uomo dal suo solitario torpore, è quel faccia a faccia che consente di percepirsi nella reciproca identità, quell’alterità che sta «di fronte» per generare dialogo e confronto: entrambi sono di reciproco aiuto. Lo aveva compreso bene la giornalista e scrittrice Elisa Salerno (1873-1957), sensibile alle ansie espresse dai movimenti femminili di inizi Novecento, che affronta con coraggio una rilettura del testo sacro per recuperare la reale figura biblica della donna, deturpata dalla «cattiva e malevola interpretazione degli uomini di Chiesa». Nell’opera Per la riabilitazione della donna (1917), Salerno ricava le ragioni dell’uguaglianza di natura e dignità tra Adamo ed Eva, mettendo in evidenza l’arte impiegata da Dio nel plasmare la donna, «il capolavoro delle sue mani».

Pertanto, l’aiuto «che gli fosse simile» va inteso, per la scrittrice, non in senso materiale ma spirituale: il compito della donna è di affiancare l’uomo nella ricerca di Dio. In questo racconto di Genesi la differenziazione sessuale è finalizzata non alla procreazione, come nella prima narrazione («siate fecondi e moltiplicatevi», Gen 1,28), ma, piuttosto, all’essere insieme. Dio, per superare la solitudine e l’isolamento, crea distinguendo e mettendo a confronto: luce dalle tenebre, terra dalle acque e così via, e tutto è «cosa buona».

L’essere compagne le une degli altri può essere dunque una cifra del comune cammino nella vita. Qui, ora, insieme è la relazione per la quale si gioca il senso dell’essere al mondo: nel trovarsi reciprocamente vicini nei momenti dolorosi e gioiosi dell’esistenza, nell’accudimento, nella risposta al bisogno dell’altra/o che interpella. Gesù di Nazareth non si è fatto forse presenza e compagnia in aiuto alle persone da curare, ascoltare, accogliere, nel quotidiano incontrarsi, parlarsi, spezzare il pane, condividere? Le donne non sono state forse in compagnia del Maestro, quando, rompendo il cerchio di protezione domestica, lo hanno seguito per le strade di Galilea (Lc8,1-3), quando sono state vicine nei cammini della fede, nei momenti delle necessità materiali, nelle situazioni di dolore, presenti fino alla morte, ai piedi della croce, prime testimoni della resurrezione e inviate in aiuto ai discepoli impauriti? E l’apostolo Paolo non è stato sostenuto dalle donne, compagne nel viaggio di una vita condivisa e attive nell’impegno di annuncio del Vangelo? Pensiamo alla diaconessa Febe, guida autorevole della comunità di Cencre, alle porte di Corinto; alla missionaria Priscilla, che con il marito Aquila affianca Paolo nella missione a Efeso, mettendo a disposizione la casa e svolgendo un importante lavoro di catechesi nella nascente chiesa domestica; all’apostola Giunia, inviata in missione con non poche pene e sofferenze; alle evangelizzatrici Trifena, Trifosa e Perside, «che hanno faticato per il Signore»; a Maria, «che ha lavorato tanto»; alla madre di Rufo, che Paolo considera come sua madre; a Patroba, a Giulia, alla sorella di Nereo e a Olimpas (Rom16,1-17). A loro si aggiungono le missionarie di Filippi, Evodia e Sintiche, che con Paolo «hanno combattuto per il vangelo» (Fil 4,2-3); le benefattrici Apfia (Fm1 ss.), che lo aveva ospitato a Colosse, e Ninfa, che lo aveva accolto nella casa di Laodicea per celebrare la cena del Signore (Col 4,15). Tante donne d’aiuto, corresponsabili della missione evangelizzatrice delle prime comunità cristiane.

Il testo sacro rappresenta la vita così come si dispiega in tutte le sue sfaccettature umane e, parlando della storia di un popolo, non è pensabile ignori il coinvolgimento di tutte le sue componenti – donne, uomini, giovani, anziani – attraversate dall’intera gamma dei sentimenti. E, certamente, non racconta storie di eroi solitari, perché sottolinea in ogni sua pagina la struttura portante dell’esistere: l’essere in relazione. La vita si condivide con gli altri esseri umani, con il creato, con Dio. Tutti sono inseriti in reti di esperienze, sentimenti, aspirazioni, ideali. Anche la storia del cristianesimo è, come tutte le esperienze umane, una storia di genere, un intreccio di rapporti complessi in cui i codici del maschile e del femminile interagiscono, si intersecano e si delineano nel dispiegarsi di una vita di compartecipazione entro spazi di mutuo scambio e arricchimento, in un variegato panorama di sensibilità e di approcci interpretativi. Entrare nei territori inesplorati dell’incontro tra donna e uomo significa venire in contatto con esperienze non solo di dolore e di emarginazione, ma anche di amicizia e di arricchenti scambi di reciproca crescita. Molte volte le donne e gli appartenenti al clero o alla vita monastica percorrono insieme la strada della vita, riconoscendosi e accettandosi tanto nelle differenze quanto nell’uguale dignità, in un continuo rimando di bisogni e di ideali, di esigenze affettive e di ansie spirituali.

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