mercoledì 26 marzo 2025
Un convegno a Genova mette al centro l'eredità del partito nel processo di integrazione continentale, che ha visto protagonisti De Gasperi, La Pira, Emilio Colombo. Un tema di grande attualità
Un murales su un palazzo di Bruxelles

Un murales su un palazzo di Bruxelles - Alamy Stock Photo

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“De Gasperi, la Democrazia cristiana e la costruzione europea” è il tema, di grande attualità, sul quale farà il punto un convegno all’Università di Genova domani e dopodomani presso l’Aula Mazzini (ore 9). L’appuntamento, organizzato dal Dipartimento di Scienze politiche e internazionali (Dispi) dell’Ateneo, analizzerà il ruolo avuto dall’Italia, in particolare da Alcide De Gasperi, nel voler creare una vera e propria comunità politica europea. «Importante ricordarlo soprattutto in questo momento, in cui torna alla luce l’idea, fallita nel 1954, di una difesa europea, oggi non ancora accompagnata, tuttavia, come invece era accaduto negli anni Cinquanta, dalla richiesta di una politica estera, fiscale e di bilancio unitarie», si legge nella presentazione del convegno. Anticipiamo le sintesi di quattro della numerose relazioni previste, quelle di Daniela Preda (direttrice Dispi), Agostino Giovagnoli (Università Cattolica), Maria Eleonora Guasconi (Genova) e Umberto Gentiloni Silveri (Roma, La Sapienza).

​De Gasperi, una Comunità che ha per fine la pace

Daniela Preda. Alcide De Gasperi è unanimemente riconosciuto, assieme a Schuman, Adenauer, Spaak, come padre fondatore dell’Europa, ma il suo impegno a favore dell’unificazione europea è rimasto a lungo ignoto nei suoi tratti essenziali e ancora oggi ne viene spesso divulgata un’immagine stereotipata, che stenta a far emergere il salto di qualità da lui impresso al processo di unificazione europea e il suo ruolo di leadership a livello continentale. Dell’unità europea avverte le ragioni storiche. Uomo di frontiera, nato a Pieve Tesino, in provincia di Trento, una regione di nazionalità culturale italiana inserita all’interno dell’Impero plurinazionale asburgico, nel 1881, nella difficile stagione del nazionalismo più esasperato, rifiuta il principio dell’identità tra Stato e Nazione e respinge i nazionalismi contrapposti, esaltando le autonomie locali come difesa dei diritti degli individui e delle nazionalità dallo Stato centralistico. Maturerà la sua inclinazione a conciliare l’unità con le diversità e coordinare i contrastanti interessi all’interno di un più ampio assetto politico-territoriale, secondo una visione solidaristica di chiara matrice cattolica, al Reichsrat di Vienna, dove viene eletto nel 1911.
Dopo la fine della Seconda guerra mondiale e il crollo del sistema europeo degli Stati, De Gasperi si muove con sempre maggior determinazione verso il superamento della divisione in Stati nazionali sovrani, secondo una visione di carattere federalista. Assunta la carica di presidente del Consiglio il 10 dicembre 1945, sin dai suoi primi atti di governo, pone le condizioni per un cambiamento che, prima di essere politico, è di mentalità: non si sarebbero potute superare le spinte egemoniche che avevano condotto alle due grandi guerre fratricide in Europa e costruire un nuovo ordine internazionale senza partire dalle fondamenta, cioè dalla negazione di ogni nazionalismo miope a favore della solidarietà tra i popoli. Esempio concreto è la stipulazione, il 5 settembre 1946, assieme a Gruber, dell’accordo sull’Alto Adige.
Al centro delle sue preoccupazioni è la costruzione della pace. Nel novembre 1948, De Gasperi afferma che libertà politica e giustizia sociale non sarebbero più state concepibili al di fuori della pace. Quest’ultima, dunque, doveva costituire il fine ultimo dell’azione democratica e politica. Nell’Europa unita egli individua un “mito di pace”, purché tuttavia non ci si limitasse alla messa in comune di competenze settoriali, ma si delineasse il quadro politico all’interno del quale le nuove Comunità sovrannazionali – la Ceca, la Ced – dovevano essere inserite. Come sarebbe stato possibile in particolare creare un esercito europeo a prescindere da una politica estera comune e da un governo europeo? Come trasferire competenze alla Comunità senza la creazione delle indispensabili istituzioni democratiche sovranazionali? A questo fine si sarebbe battuto sino a ottenere l’inserimento nel progetto di trattato della Ced di un articolo che avrebbe condotto alla stesura, tra il 1952 e il 1953, del primo Progetto di Comunità politica europea.
Se negli anni Cinquanta l’azione di De Gasperi non ebbe successo, a causa dell’affossamento della Ced, la proposta di Comunità politica europea torna a interrogarci oggi, di fronte alla guerra e alle iniziative di riarmo, indicandoci la meta da raggiungere affinché l’Europa possa avere un ruolo nel nuovo ordine mondiale multipolare.

La Pira, la rivolta morale di una nuova cristianità

Agostino Giovagnoli. L’Unione europea soffre di un deficit di narrazione. A differenza delle diverse patrie nazionali per le quali le narrazioni sovrabbondano, l’Europa – che pure De Gasperi chiamava “la nostra patria Europa” – non ne ha di altrettanto unitarie, convincenti, appassionanti. Roberto Benigni ha ripercorso recentemente la storia dell’Unione europea in una performance televisiva molto coinvolgente. Ma numerosi ostacoli continuano a rendere difficile la narrazione di tale storia. All’UE si rimprovera che la sua costruzione sia avvenuta soprattutto attraverso incontri, discussioni e decisioni di leader politici dei vari Paesi europei, con scarso coinvolgimento popolare. Ma c’è un’importante eccezione: la spinta iniziale verso l’unità dell’Europa è venuta da un grande evento popolare, la Seconda guerra mondiale. Le sofferenze causate da quella guerra hanno unito gli europei come mai in precedenza e non è un caso che i sogni e i progetti di un’Europa unita siano nati nelle trincee, tra le fila della Resistenza, nei luoghi di confino o nelle prigioni. Non è un caso che le Chiese abbiano raccolto, più di molti altri, la grande domanda di pace che saliva da tutta Europa e che i partiti democratico cristiani abbiano alimentato per decenni un forte sentimento europeistico.
In questo contesto si è radicato anche l’approccio di Giorgio La Pira all’Europa. Nella Seconda guerra mondiale questi vide il drammatico fallimento di ciò che, più di ogni altro elemento storico, aveva unificato in passato l’Europa: la cristianità. Nel 1939 fondò la rivista “Principii”, ispirata da una rivolta morale contro il fascismo, il nazismo e la guerra, che il regime gli fece chiudere l’anno successivo. Ma cominciò allora a sviluppare un pensiero profondo sull’Europa, a partire da una riflessione su santa Caterina da Siena di cui scrisse che, semplice popolana, concepì e cercò di attuare un audace disegno: riportare il papa a Roma e ricomporre nuovamente intorno a lui l’“equilibrio della cristianità”. Come la “la scena politica europea del XIV secolo”, anche quella dell’Europa durante la Seconda guerra era molto “complessa” e ugualmente profondo era lo sfaldamento della cristianità. In entrambi in casi, la priorità era costituita dal “rifare la pace tra i cristiani”.
Negli anni del conflitto, La Pira si ispirò al pensiero giuridico e filosofico francese, per elaborare la sua idea di dignità della persona umana quale fondamento dell’Europa post-bellica. Non guardo per caso alla Francia: in essa vedeva lo Stato nazionale che più di tutti poteva riportare l’Europa all’unità. Finita la guerra si rivolse a Maritain con questa speranza, ma questi non sentiva con altrettanta forza l’urgenza dell’unità europea. Subito dopo, la Guerra fredda divise in due il Vecchio continente. La Pira cominciò a sperare nel superamento della logica dei blocchi che gli sembrò concretizzarsi nella distensione e si impegnò in questa direzione a partire dalla città di cui divenne sindaco: Firenze. Nell’età di Giovanni XXIII, di Kennedy e di Chrušcëv, vide in De Gaulle e in Fanfani i due leader politici che più di altri potevano realizzare l’unità europea. La decolonizzazione rafforzò il suo disegno e indicò all’Europa un ruolo incentrato non sull’affermazione del dominio occidentale ma sull’inclusione del Terzo mondo. Alle città europee affidò invece il compito di impegnarsi per la pace mondiale, divenuta una scelta “obbligata” dalla storia davanti al pericolo dell’autodistruzione planetaria.


Emilio Colombo, diplomazia al servizio dell'integrazione

Maria Eleonora Guasconi. Nato a Potenza l’11 aprile 1920, Emilio Colombo si laureò in Giurisprudenza e militò nell’Azione Cattolica, entrando ben presto a fare parte della Democrazia cristiana. È ricordato soprattutto per il suo impegno in Europa, non solo per avere ricoperto il ruolo di presidente del Parlamento europeo dal 1977 al 1979, ma anche per essere stato l’autore, con il ministro degli Esteri tedesco Hans-Dietrich Genscher dell’iniziativa di rilancio dell’integrazione europea nota come Piano Colombo-Genscher del 1981. Le doti diplomatiche di Colombo emersero in occasione dei negoziati per la prima domanda di adesione del Regno Unito alla Cee nel 1961, quando guidò la delegazione italiana e si distinse per le capacità di mediazione e per l’attenzione nello studio di dossier tecnici particolarmente complessi, rafforzando la propria immagine internazionale. La capacità di Colombo di mediare in situazioni di stallo del processo di integrazione europea apparve evidente nella “crisi della sedia vuota” del 1965, quando negoziò il compromesso di Lussemburgo con il ministro degli Esteri francese, Maurice Couve de Mourville, introducendo il famoso “diritto di veto”.
Nel 1976 Colombo fu designato rappresentante italiano al Parlamento europeo, di cui fu eletto presidente nel 1977. La sua presidenza diede un impulso significativo alle relazioni esterne del Parlamento europeo; nel 1979 ricevette l’importante Premio Carlo Magno ad Aquisgrana, che viene assegnato ogni anno all’uomo politico europeo che ha maggiormente contribuito al processo di integrazione europea; fu il terzo politico italiano a ricevere questa importante onorificenza, dopo Alcide De Gasperi e Antonio Segni. Al Consiglio europeo di Venezia del 12-13 giugno 1980, Colombo fu l’autore di una dichiarazione, che rappresentò un vero e proprio “salto qualitativo” di tutta la politica mediorientale dell’Europa e che, con il riconoscimento del principio dei due popoli e dei due stati, avrebbe rappresentato la posizione europea nei confronti del conflitto israelo-palestinese fino a oggi. Grazie alla sua azione, l’Italia riuscì a ritagliarsi un ruolo non secondario nelle vicende mediorientali, affermandosi come interlocutore credibile dei vari attori regionali coinvolti direttamente e indirettamente, basti pensare alla partecipazione alla forza internazionale in Libano nel 1982 o ai rapporti con la Libia di Gheddafi.
Il nome di Colombo fu soprattutto legato al Piano che elaborò nel 1981 con il ministro degli Esteri tedesco Hans-Dietrich Genscher, che proponeva il rafforzamento dell’azione internazionale della Comunità europea, estendendo il coordinamento delle politiche estere dei paesi membri ai settori della difesa e della cultura. Tale piano, che avrebbe preso il nome di Atto europeo, proponeva inoltre di limitare la pratica del “diritto di veto” da parte del Consiglio dei ministri e di rafforzare il ruolo del Parlamento europeo. Nonostante gli sforzi di Colombo e Genscher, il piano entrò in una fase di stallo.
A dispetto del suo impegno europeo, l’azione di Colombo in politica estera è stata poco studiata, rispetto ad altre figure della Dc come De Gasperi, Gronchi, Fanfani, Moro e Andreotti. Il versamento del suo archivio privato all’Istituto Sturzo di Roma e la digitalizzazione dei documenti da parte degli Archivi storici dell’UE di Firenze danno l’opportunità di ricostruirne con maggiore precisione il ruolo da protagonista.


L'eredità Dc, aver unito i partiti e coinvolto l'opinione pubblica

Umberto Gentiloni Silveri. L’eredità europea della Democrazia cristiana s’intreccia fortemente con i percorsi di sviluppo del dopoguerra della Repubblica: difficile isolare cronologie e contesti, ancor più arduo delimitare il perimetro del partito dall’azione dell’esecutivo. Con i rischi della sintesi schematica possiamo individuare dei piani di lettura che costituiscono una base per ragionare di lasciti di stagioni lontane e di presenze radicate nel tessuto della società italiana. Un patrimonio che nonostante strappi e prese di distanze ha contribuito a segnare segmenti significativi di diverse generazioni di italiani ed europei. Sarebbe davvero imperdonabile far scivolare tale patrimonio tra le pagine dimenticate o cancellate della nostra storia comune. Prendiamo in esame le linee di fondo in un’analisi che si muove a partire dall’impostazione degasperiana, dai nessi tra l’uscita dalla guerra e le scelte costitutive della prima legislatura.

In primo luogo la ricerca di una collocazione nel nuovo mondo che si appoggia sulla premessa fondante della sconfitta del nazifascismo. L’Europa sorregge l’opzione di fondo della doppia fase costituente: in chiave interna l’investimento sulla Costituzione e il cammino della Repubblica dei partiti, nella dimensione internazionale nella scelta di essere promotori e partner di un inedito progetto europeo. Nelle stagioni successive, anche dopo la morte di De Gasperi, il cammino europeo sostiene l’azione dei governi, allarga lo sguardo e le prospettive, offre un quadro di riferimento avverso alle tragedie violente della prima metà del Novecento. Una sorta di collante per forze e culture diverse in un ragionamento che incontra la definizione di un interesse nazionale che esce dai confini ristretti del sistema politico per misurarsi sul terreno dei vincoli e delle interdipendenze con altri protagonisti. L’Europa presente e quella che verrà come parte della politica estera italiana, riferimento obbligato (talvolta generico e contraddittorio) e costante nell’azione di governo e nella diplomazia internazionale.

In secondo luogo l’eredità di aver trasmesso e in una certa misura sedimentato (fino allo scorcio conclusivo del Novecento) un europeismo comune, non divisivo ma inclusivo e attraente. Un soft power del percorso e dello stesso linguaggio europeo che, seppur segnato da differenze non marginali sugli indirizzi di fondo, è riuscito a condizionare maggioranze e opposizioni fino ai dati misurati e consolidati sulle opinioni di una società italiana tra le più convinte della scelta europea per un lungo tratto del secondo dopoguerra. Il quadro è ovviamente plurale per opinioni e contesti, ma la scelta di essere parte del processo d’integrazione rafforza la definizione di una sovranità che si muove tra il quadro interno e il contesto internazionale, limitando dove possibile ingerenze e subalternità, esaltando le capacità e le ricchezze del sistema paese. Una sinergia incoraggiante che mette in relazione le classi dirigenti con settori non marginali della società italiana attraversata dalle sfide del miracolo economico e condizionata dagli effetti della decolonizzazione.
Infine l’Europa atlantica che affonda le radici nell’antifascismo comune tratteggia uno spazio possibile nel quadro della guerra fredda condizionante: vale per i governi imperniati sulla Dc ma vale anche per le opposizioni alla ricerca di un’Europa come opzione “altra” rispetto alle rigidità del mondo comunista. Tra le eredità indagate (e perdute) dell’Europa del dopoguerra emerge la centralità di una base di riferimento per culture politiche che seppur segnate da differenze e conflitti tratteggiano un perimetro comune prezioso e in parte dilapidato negli ultimi decenni. Ma questa è un’altra storia.

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