Nel 2003 «Avvenire» chiese a Giorgio Faletti una breve testimonianza sul significato della Pasqua. Ecco la sua risposta, pubblicata sul nostro giornale il 20 aprile di quell’anno:
Anche per me, che mi considero un laico, la Pasqua rappresenta la festa della speranza. È stato così fin da bambino, quando coltivavo speranze molto modeste. Mi sarei accontentato, per esempio, di non ammalarmi il Lunedì dell’Angelo, che poi era il giorno del «merendino», come si dice dalle mie parti. La gita fuori porta, insomma. Invece niente: se c’era da prendere il raffreddore, il morbillo, un qualsiasi malanno, andava a finire che me lo prendevo il Lunedì dell’Angelo. E addio merendino. Adesso sono cresciuto, anche se sono ancora in attesa di chiarirmi le idee sull’aldilà. Perché questo, se non mi sbaglio, è il significato più profondo della Pasqua: il passaggio dalla morte alla vita, il mistero della risurrezione di Cristo.Questa, per me, è la speranza della Pasqua. Una speranza che vale per tutti, credenti e non credenti, per quanto avere speranza significhi già, in definitiva, avere fede. Da sola, però, la speranza non basta: c’è bisogno dell’impegno di ciascuno di noi, anche il Papa non si stanca di ripeterlo. Ed è proprio pensando alla cronaca delle ultime settimane che mi viene da formulare un augurio particolare. Una speranza, se vogliamo: che più nessuno sulla Terra debba soffrire fame, sete o bisogno; che guerre e terrorismo siano sconfitti non dalla violenza, ma da un benessere finalmente diffuso con giustizia. Obiettivo troppo ambizioso? Può darsi, ma io sono sempre stato un sognatore. Uno che spera, appunto.