
Donna pachistana in preghiera nella cattedrale di San Giovanni a Peshawar - Ansa
Pubblichiamo ampi stralci dell’intervista a Esther Ahmad, realizzata dal curatore Craig Borlase, che chiude il volume La donna che sfidò la Jihad in libreria da oggi per le edizioni Il Pellegrino (pagine 368, euro 18,00)
È in contatto con qualcuno dei suoi conoscenti in Pakistan?
«Non ho più contatti con la mia famiglia e questo mi spezza il cuore. Amiyah vede spesso gli altri bambini con i nonni e ci rattrista sapere che non conoscerà mai i suoi né il resto della sua famiglia allargata. Attualmente ci sentiamo con la famiglia di John, con il suo pastore, la sua comunità e molte delle persone che ci hanno aiutato mentre eravamo in fuga. Questi credenti sono sempre esposti alle persecuzioni in Pakistan e vivono costantemente minacciati. Uno dei fratelli di John è stato picchiato e altri cristiani che ci hanno aiutati sono stati aggrediti. Un pezzo del nostro cuore resterà per sempre in Pakistan».
Come affronta il fatto di non poter comunicare con la sua fa- miglia, in particolare con sua madre, suo fratello e sua sorella minore?
«In certi momenti è davvero difficile accettarlo. Continua a fare male, ancora oggi. Appena arrivati in Malesia, mi svegliavo tutte le mattine e piangevo mentre Amiyah dormiva. Un giorno, tornando in anticipo dal lavoro, John mi ha trovato in lacrime. Mi ha chiesto perché stessi piangendo e gli ho risposto che mi mancava la mia famiglia. (...) “Perché passare tante ore al giorno a piangere se non ottieni nulla? Perché invece non preghi per loro? Prega che la fede di tua madre in Gesù Cristo diventi più forte, e prega per trovare la forza di perdonare tuo padre. In questo modo raggiungerai la pace nel cuore e nella mente”. A partire da quel giorno è stato esattamente ciò che ho fatto. Mi sono sentita subito meglio. Ancora oggi inizio ogni giornata pregando per la mia famiglia. È questo il mio modo di affrontare la cosa».
Che cosa le manca del suo Paese natale, in particolare sapendo che non ci tornerà più?
«Mi manca la mia famiglia, i miei amici cristiani e l’amicizia che condividevamo. Le persone che si sono prese cura di noi mentre eravamo in fuga sono diventate come una famiglia per me. Ci hanno accompagnato per le due miglia, proprio come ci dice di fare Gesù. Con alcuni di loro siamo rimasti in contatto e gli inviamo dei soldi quando possiamo, dato che sono sempre perseguitati. (...) Quando vivevo in Pakistan e non potevo andare in chiesa, sognavo di quanto sarebbe stato meraviglioso poter pregare insieme agli altri fedeli. Pensavo che i cristiani negli Stati Uniti sarebbero stati grati di poter andare in chiesa tutte le volte che volevano, invece preferiscono andare in spiaggia, guardare le partite o mangiare. Questo mi rattrista un po’». (...)
Qual è stato il benvenuto che avete ricevuto nella vostra nuo- va casa?
«Siamo stati aiutati da tante persone meravigliose delle Chiese locali. Ci hanno offerto aiuto e sostegno pratico – mobili, vestiti, cibo – e ci hanno invitato a entrare a far parte delle loro famiglie. In un momento in cui io sentivo in modo particolare la mancanza di mia madre e Amiyah era triste perché non conosceva le zie o la nonna, Dio ci ha mandato Lisa, una donna conosciuta in chiesa. Fin dall’inizio mi ha detto: “Chiamami mamma” e ad Amiyah: “Chiamami nonna” e non passa giorno che non ringrazi Dio della sua presenza. Dio ci ha preceduto in tantissimi modi e ha provveduto a noi con un gruppo di persone generose e amabili. Siamo eternamente grati per la famiglia che abbiamo trovato qui, sotto forma dei nostri fratelli e sorelle cristiani».
Quali sono, secondo lei, i pregiudizi più comuni sui musulmani?
«In genere gli occidentali tendono a credere che tutti i musulmani diffondano odio e sostengano il terrorismo. Benché fossi pronta a dare la mia vita per la jihad, non credo che tutti i musulmani la pensino in questo modo. Io facevo parte di una pericolosa minoranza, ma ritengo che ci siano tantissimi musulmani buoni, sensibili e istruiti che respingono l’ideologia della jihad citata nel Corano». (...)
Prendendo in esame i suoi dibattiti sul Corano e la Bibbia, qualcuno potrebbe obiettare che l’infallibilità biblica potrebbe essere messa in discussione come lei ha fatto con il Corano. Come risponderebbe a questa affermazione?
«La Bibbia si fonda sulla verità. Ci indirizza verso Gesù e ci invita ad approfondire il nostro rapporto con Dio. Il Corano si basa sulla confusione. I musulmani non sono incoraggiati a confrontarsi con esso o a cercare la verità individualmente, ed è pieno di contraddizioni. Prendiamo la storia di Giona, per esempio, in cui l’indicazione di quanto tempo abbia trascorso nella pancia della balena varia in tutto il Corano e negli hadith: in alcuni punti si dice un giorno, in altri tre, sette o quaranta. È per questo che i musulmani non sono incoraggiati a leggere il Corano nella loro lingua madre, né a metterlo in discussione in alcun modo. A me piace il modo in cui i cristiani possono confrontarsi e discutere sulla Bibbia, perché è abbastanza solida da resistere alle nostre domande. E quello che siamo incoraggiati a fare è proprio cercare la verità. In Luca 11,9 Gesù dice: “Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto”».
Quali sono le differenze tra la Chiesa negli Stati Uniti e quella in Pakistan?
«Le Chiese americane sono diverse da quelle pakistane. Sebbene la gente negli Stati Uniti sia materialmente più fortunata e abbia più opportunità, a molte persone non piace andare in chiesa. I pastori qui sono più concentrati a servire la comunità ecclesiastica che a fare proseliti. I cristiani in Pakistan devono lottare. Frequentano la chiesa con grande devozione, sono assetati di preghiera e di adorazione. Certe parrocchie ricevono lettere minatorie, ma continuano a esistere. Spesso i pastori corrono gravi rischi. Però abbiamo molto in comune. Tutti leggiamo la Bibbia, tutti adoriamo e preghiamo lo stesso Dio! E lui è abbastanza grande da saperlo e prendersi cura di noi».
Che consigli darebbe a un cristiano che vuole far conoscere Cristo a un musulmano?
«Di essere un buon cristiano! Come sta scritto nel Vangelo di Matteo 5,16: “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli”. Il nostro principale modello è il Signore Gesù Cristo. Lui ha stabilito l’esempio da seguire, perciò dovremmo amare, servire e pregare per il prossimo, proprio come ha fatto lui. È importante ricordare che fare discepoli non significa solamente spingere le persone a partecipare a una grande riunione o a stare in loro compagnia per una settimana. Dio può intervenire e rendersi manifesto in una serie di momenti diversi, come ha fatto con me, ma il viaggio per imparare a seguirlo richiede molto tempo. Se vogliamo condividere la nostra fede con i musulmani, dobbiamo essere pronti a percorrere delle miglia in più. Dobbiamo essere persone positive nella nostra vita, rendere testimonianza della nostra esperienza e donare la nostra amicizia per tutto il tempo necessario. E pregare, imparando a lasciare che sia Dio, e lui soltanto, a guidare parole e azioni».