Una lacrima bagna i suoi occhi. Il ricordo fa ancora male, anche se sono passati quasi ottant’anni. Settantanove, per la precisione, proprio oggi. Ato Zewede Geberu ha trascorso la sua vita in un villaggio sull’altopiano etiopico a poche centinaia di metri da Laga Welde Gorge, un luogo che – in Italia – non dice niente ma dove, invece, viene scritta una delle pagine più nere della nostra storia coloniale. In questa spianata che si affaccia su un profondo dirupo, le truppe italiane, comandate dal generale Maletti, uccidono e fanno rotolare nel precipizio circa 1.200 persone tra monaci, preti e pellegrini, catturati nel vicino monastero ortodosso di Debre Libanos.Nessuno deve assistere all’esecuzione. Ma c’è qualcuno che sente e che oggi può ancora raccontare. Ato Zewede Geberu è uno dei pochissimi testimoni di quella strage ancora in vita. «Sono nato qui – racconta –. La mia casa è su questo altopiano vicino a Shinkurt Méda, il luogo della strage, conosciuto anche come Laga Welde Gorge. All’epoca avevo 15 anni. Non ho visto il massacro. Ma l’ho sentito. Ho sentito i colpi della mitragliatrice. Abbiamo avuto paura siamo rimasti nascosti nel nostro villaggio. Dopo due, tre giorni sono andato a vedere. C’erano ancora i cadaveri, centinaia di morti. E gli animali cominciavano a mangiarli. E c’erano poi i soldati italiani che si aggiravano ancora da quelle parti».È la prima parte della più grande strage di cristiani mai compiuta in Africa. Il secondo tempo, qualche giorno dopo, farà altre 800 vittime. È un massacro programmato ed eseguito dai nostri connazionali ma di cui non si è mai parlato. Questa sera alle 21 (e domani, in replica, alle 18,30), un docu-film di Tv2000 (fotografia e regia di Andrea Tramontano), intitolato
Debre Libanos, racconta con testimonianze e documenti inediti quella tragedia. La testimonianza più commovente è proprio quella di Ato Zewede Geberu, che racconta anche perché riesce a non incappare in quel massacro: «Nel giorno della festa di san Michele non sono andato a Debre Libanos. Moltissimi fedeli dei villaggi qui intorno sono andati al monastero. Ma la mia famiglia quella volta decise di non andare. Una decisione che ci ha salvato la vita».La strage di Debre Libanos è l’ultima, tragica conseguenza di un attentato contro il viceré, Rodolfo Graziani, l’uomo al quale Mussolini aveva affidato il governo dell’Etiopia. Il 19 febbraio del 1937, due giovani eritrei, Abraham Debotch e Mogus Asghedom, lanciano alcune bombe contro il viceré, nel cortile del palazzo del governo, durante una cerimonia organizzata per festeggiare la nascita del principe di Napoli, Vittorio Emanuele di Savoia. Nell’attentato muoiono sette persone. Graziani viene ferito. Gli italiani scatenano una feroce vendetta. Per tre giorni Addis Abeba viene messa a ferro e fuoco dalle camicie nere, comandate dal federale Guido Cortese. È una strage. Si parla di migliaia di vittime. Viene bruciata anche la cattedrale di San Giorgio. La Chiesa ortodossa è nel mirino. L’anno precedente – il 30 luglio del 1936 – Abuna Petros, uno dei quattro vescovi etiopici, era stato sommariamente processato con l’accusa di aver aiutato i ribelli e fucilato in piazza del mercato, ad Addis Abeba.Quella ortodossa etiopica è una chiesa cristiana antichissima, fondata, secondo la tradizione, da San Frumenzio nel IV secolo. Separata da Roma, dopo il Concilio di Calcedonia, per la questione teologica della natura di Cristo, mantiene diversi elementi ebraici, derivati dall’Antico Testamento: la circoncisione, le regole alimentari, il rispetto del sabato. Ad Axum, sostiene di conservare l’arca dell’Alleanza. La Chiesa ortodossa è l’anima spirituale del paese e uno degli elementi fondanti la stessa identità nazionale. La ribellione contro gli italiani si nutre anche di questi ideali. Il monastero di Debre Libanos, poco più di cento chilometri a nord di Addis Abeba, è il centro religioso più importante del paese. Qui, vengono incoronati gli imperatori, tra i cui consiglieri figura anche l’abate del monastero. Quando si diffonde la notizia che i due attentatori sono scappati verso Debre Libanos, Graziani coglie l’occasione per annientarlo, credendo – in questo modo – di liberarsi del più pericoloso sostegno della ribellione etiopica.In realtà, i monaci non c’entrano nulla con l’attentato. Spiega Daniel Jote Mesfin, presidente dell’Associazione dei patrioti d’Etiopia: «I monaci e i sacerdoti di Debre Libanos non fanno la guerra direttamente ai fascisti, non partecipano in prima persona alla resistenza. Ma sono un punto di riferimento morale e spirituale. Pregano. I fascisti hanno le armi, gli aerei. Noi abbiamo solo Dio, dicono. E poi forniscono anche assistenza. Curano i feriti procurano viveri, ad esempio».Graziani è convinto, invece, che i due attentatori siano nascosti nel monastero. La sera del 19 maggio, Maletti riceve da Graziani questo telegramma: «Questo avvocato militare mi comunica proprio in questo momento che habet raggiunto prova assoluta correità dei monaci convento Debra Libanos con gli autori dell’attentato. Passi pertanto per le armi tutti i monaci indistintamente compreso il vice-priore. Prego darmi assicurazione comunicandomi numero di essi». Maletti esegue e compie la prima parte della strage: vengono fucilati monaci, preti e pellegrini del monastero e anche quelli giunti a Debre Libanos per la grande festa dedicata all’Arcangelo Mikael e a san Tekle Haymanot. Vengono risparmiati i diaconi, la cui sorte, però, è segnata. Telegramma di Graziani a Maletti del 24 maggio: «Ras Hailù da me interrogato conferma pienamente responsabilità convento Debra Libanos. Ordino pertanto di passare immediatamente per le armi tutti i diaconi di Debra Libanos meno i ragazzi. Assicuri con parola “Liquidazione completa”».La strage è compiuta. Ad Addis Abeba viene giustiziato anche un altro giovane. È Simion Adefris, intellettuale cattolico che fa da autista ai due attentatori in fuga. Tornato nella capitale viene incarcerato e ucciso. Il suo corpo viene riconsegnato alla famiglia dietro pagamento di una certa quantità d’oro. Simion era lo zio dell’attuale arcivescovo di Addis Abeba, il cardinale Berhaneyesus Demerew Souraphiel.