In uno dei suoi ultimi interventi Jacques Derrida ha affermato: «Io rimango e voglio rimanere un razionalista, un fenomenologo». Il filosofo francese ha ripetuto tale confessione più volte, alla fine della sua vita con tono sconsolato, soprattutto per rispondere all’invettiva di coloro che, spesso dopo aver letto solo qualche pagina dei suoi testi e studiata nessuna, non si sono stancati di accusarlo di relativismo, di scetticismo, di mancanza di rigore, di giocare con i concetti e con le parole, eccetera. C’è ancora qualcuno, ad esempio, che, a dispetto delle ventuno
honoris causa in filosofia ricevute da Derrida, nega che quest’ultimo sia stato in realtà un filosofo; ce ne faremo una ragione, d’altra parte ognuno gode come può. Eppure basterebbe leggere, con un minimo di attenzione e senza preconcetti, uno dei suoi numerosissimi scritti per accorgersi ch’egli non ha mai giocato con le parole e non si affatto limitato a mettere un po’ di scompiglio all’interno dell’istituzione universitaria. Certo, per Derrida essere razionalista ha significato soprattutto problematizzare l’idea stessa di razionalità (in particolare di razionalità filosofica) attraverso una continua e puntuale interrogazione del sistema concettuale che attorno ad essa si è venuto a consolidare nel corso dei secoli. Da questo punto di vista egli non ha fatto altro che confermare proprio la gloriosa tradizione filosofica che ha così severamente indagato: si tratta sempre di diffidare del senso comune e di combattere l’ovvio che non raramente è nemico del vero. In fondo non si può "pensare" senza "ripensare", e per "ripensare" non bisogna stancarsi di mettere in discussione quelle certezze che tendono con insistenza a presentarsi come del tutto naturali, cioè - ecco la trappola e dunque il pericolo - come qualcosa di neutrale."Ripensare" significa "riaprire" e "rilanciare"; è la caratteristica di ogni grande filosofo: rimettere in moto antiche discussioni, riattivare il pensiero sollecitando ad interrogare il noto come se fosse ignoto, rilanciare quelle questioni che i più giudicano superate se non addirittura insignificanti. L’urgenza di tale "riapertura" è ciò che a mosso fin dal principio la riflessione derridiana; in un testo intitolato significativamente
Du droit à la philosophie (Galilée 1990; in Italia tradotto da Abramo editore), riferendosi al periodo dominato dallo strutturalismo, Derrida ha affermato: «Durante gli anni (...) circa dal 1963 al 1968, cercai di dare forma (...) a ciò che non doveva in alcun modo essere un sistema, ma una specie di dispositivo strategico aperto, sul suo proprio abisso, un insieme non chiuso, non chiudibile e non totalmente formalizzabile di regole di lettura, d’interpretazione, di scrittura» (p. 446). In un certo senso il filosofo francese non ha fatto altro che lavorare a questa forma, alla forma di questo altro pensiero che è stato anche un pensiero dell’altro. Eppure, come si può essere rigorosi con l’altro? Che cosa significa essere rigorosi con l’altro? E poi, ancor più radicalmente: l’apertura o meglio l’esposizione all’altro, l’"a-l’altro", non coincide forse con il cuore stesso di una ragione, quella umana, che non si risolve affatto nella sola intelligenza?Intorno a tali interrogativi Derrida non si è stancato di lavorare dando vita ad una delle più imponenti e innovative opere filosofiche del Novecento. Da questa ampia tessitura mi limito qui ad estrarre solo uno dei suoi moltissimi fili, quello che ha accompagnato l’ultimo periodo della vita del filosofo francese. Mi riferisco al paradossale e al tempo stesso sorprendente tema dell’"impossibile", un tema quasi impossibile, verrebbe da dire, per uno che rimane e vuole rimanere un razionalista. Attraverso l’"impossibile" Derrida ha ripensato a suo modo la grande figura heideggeriana dell’"evento" e ha spinto con rigore e fino all’estremo, per l’appunto riaprendola, la tradizionale riflessione sul "possibile". In effetti, soprattutto oggi, in un mondo dominato dalle "procedure", si diventa spesso insensibili di fronte alla sorpresa di un possibile che viene ormai pensato unicamente solo attraverso il calcolo e la previsione. Tutto viene programmato, tutto viene anticipato, ogni dramma viene dissolto. All’interno di una simile chiusura il possibile finisce per trasformarsi nel puro e semplice calcolabile, il dato diventa prodotto, l’evento si trasforma in fatto (letteralmente in qualcosa che viene fatto, che viene costruito: non si dice forse, povero Heidegger, "organizzare un evento"?), il gesto si risolve nell’atto e quest’ultimo in progetto, ma soprattutto l’esperienza tende ad assumere i tratti astratti dell’esperimento. È per sottrarsi ad un simile destino che il filosofo francese ha fatto l’elogio, se così posso esprimermi, dell’"impossibile": egli è ricorso all’impossibile proprio per liberare il possibile dal calcolo e l’evento dal programma, riconsegnandoli entrambi all’imprevedibilità propria della loro natura. Lo ha sottolineato più volte: «L’
im- dell’im-possibile (...) non è semplicemente negativo o dialettico, esso introduce al possibile, ne è l’
usciere lo fa venire secondo una temporalità anacronica o secondo un filiazione incredibile - che è del resto, proprio così, l’origine della fede».Altro che scetticismo o nichilismo (propongo di multare l’abuso di questi termini); si tratta, per chi ha orecchi per intendere e occhi per vedere, precisamente del contrario. Da questo punto di vista l’opera di Derrida, fecondata dalle sue "paradossali" riflessioni sulla voce e sulla scrittura, sul dono e sul perdono, sulla testimonianza e sullo spergiuro, conserva tutta la sua forza dirompente (interrogante) e costituisce ancora un formidabile strumento di resistenza-e-di-lotta per tutti quei razionalisti che non si rassegnano a vedersi trasformare nelle sterili ancelle di quella "triste teologia" digital-analitico-cognitivistica che è capace di vantarsi persino del suo proprio
rigor mortis.