Lo psichiatra veneziano Franco Basaglia (1924-1980)
«Non mi resta il tempo necessario per cambiare la testa agli psichiatri. Meglio formare una squadra di giovani ». Così lo psichiatra veneziano Franco Basaglia, l’uomo che fondò la concezione moderna della salute mentale, restituendo ai “matti” la dignità di persone colpite da una malattia e non più marchiate da un’indicibile colpa, tra i giovani di buone speranze reclutò Peppe Dell’Acqua, allora ventiquattrenne. «Era il 1971, mi ero laureato a Napoli e all’epoca Basaglia era bandito dalla clinica universitaria, assieme alla psicanalisi», ricorda Dell’Acqua, che a Trieste è stato per diciotto anni direttore del dipartimento di Salute mentale e oggi insegna Psichiatria sociale all’università. Prezioso testimone, Dell’Acqua visse in diretta la gestazione della legge 180 o Legge Basaglia, entrata in vigore il 13 maggio 1978, esattamente quarant’anni fa, e ricordata sbrigativamente per aver “chiuso i manicomi”.
Prima che Basaglia scendesse in campo era ancora in vigore la legge del 1904, per la quale venivano internate «le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose e riescano di pubblico scandalo». Più una punizione che una cura, più una reclusione che un ricovero, più una colpa e una vergogna che una normale malattia.
«In un’intervista del 1968 Sergio Zavoli chiese a Basaglia se fosse più interessato al malato o alla malattia, e Basaglia calcò la voce su un avverbio: “Indubbiamente al malato”. Il malato di mente fino al 1978 non è un cittadino, la Costituzione è valida per tutti ma non per chi è internato, privato di qualsiasi diritto. Per cambiare le cose, deve avvenire qualcosa di straordinario il 13 maggio di quell’anno, quattro giorni dopo l’assassinio di Aldo Moro, quando in una commissione ministeriale presieduta da una giovane Tina Anselmi nasce una legge grazie a uomini e donne illuminati, che si interrogano: i matti, questi centomila reclusi in novanta manicomi, sono o non sono cittadini italiani? Vige anche per loro la Costituzione repubblicana del 1948? La loro risposta è sì e da lì comincia la scommessa spigolosa del nostro Paese, una strada tutta in salita».
La citazione di Aldo Moro non è casuale...
«Moro fu l’estensore dell’articolo 32 della Costituzione sul diritto fondamentale alla cura e alla salute: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario...”, trent’anni dopo questa sarà la 180. Quando scrisse queste parole, Moro si confrontava con La Pira, con Calamandrei, tutti giovani che avevano vissuto le restrizioni del fascismo. Quattro giorni prima dell’entrata in vigore della legge che restituiva libertà, diritti e dignità ai malati, Aldo Moro moriva prigioniero, senza diritti e senza dignità, le cose per cui aveva lottato. Questo ci dà il senso dello spessore umano e drammatico che comporta la follia: il prendersi cura dell’altro non è un atto di carità, è il riconoscimento dell’altro nel suo pieno diritto. I primi balbettii di queste intuizioni avvennero all’inizio del ’900, ai tempi di Freud, quando ci si chiese se avessero un senso quei deliri, se fosse possibile dare una qualche ragione a quelle allucinazioni. Ma solo Basaglia ha messo tra parentesi la malattia, e fatto questo non poteva che scoprire delle persone, nomi, storie, relazioni, violenze, desideri andati in fumo, tutte vite cui dare un senso. In loro riconosceva “il soggetto”».
Una “scoperta” che rivoluzionava l’approccio e l’intero impianto di cura.
«Intuita la pochezza della scienza psichiatrica e invece la potenza della presenza di persone, Basaglia non può fare altro che aprire la porta, non solo in senso letterale e concreto (la porta dei manicomi), ma come intensa metafora: dietro la porta ci sono finalmente cittadini, non più una massa appiattita in un’unica identità, quella dell’internato. Da qui è naturale che derivi la dimensione politica, cioè il battersi per i diritti di chi diritti non ha, la dimensione etica, ovvero rimediare all’indegnità, e la dimensione della singolarità, che poi è quella terapeutica: non posso curare, se non riconosco la singolarità di ogni altro ».
Eppure quarant’anni di legge 180 lasciano aperte forti criticità.
«Calamandrei della Costituzione disse che aveva uno sguardo presbite, che cioè guardava lontano. Così la 180: nell’immediatezza restituiva finalmente diritti, che sarebbero stati realizzati poi. Molte cose da allora sono accadute, oggi per chi ha disturbi mentali parliamo di diritto di famiglia, diritto alla casa, all’abitare, al lavoro, e quanti si sono sposati, hanno le loro crisi ma anche la loro vita. Nella collana di libri di psichiatria che dirigo (“180 – Archivio critico della salute mentale”), queste persone ci parlano di come ce l’hanno fatta grazie ai servizi più o meno scalcagnati o invece luminosi funzionanti in Italia. Ad esempio Guarire si può è scritto a quattro mani da un’operatrice e una persona con disturbi mentali, laureata e da quarant’anni in cura».
Come commenta l’annosa accusa di aver “chiuso i manicomi senza prima organizzare le alternative”?
«Sono invecchiato sentendo queste parole. Le dico che americani e sovietici quando scoprirono l’umanità dei lager non potevano attendere mesi per decidere con quali mezzi portarla fuori da lì, c’erano un’urgenza e una crudeltà per cui non si poteva aspettare. A Norberto Bobbio in un’intervista fu chiesto se in Italia nel dopoguerra ci sia stata una vera riforma, Bobbio restò interdetto e poi rispose che sì, l’unica vera riforma era quella che aveva liberato i matti, perché coglieva il senso della restituzione del diritto».
Parlando di Basaglia lei si commuove spesso.
«Un ricordo: ero con lui a Trieste da tre mesi e feci un errore giovanile, chiesi al presidente della Provincia dov’era finita la borsa di studio che mi era stata promessa. Basaglia mi fulminò e mi invitò a fare le valigie. Il giorno dopo mi spiegò: “Non è più il tempo dell’università, qui stiamo facendo una scommessa che ci può vedere perdenti in qualunque momento, qui comincia la lunga marcia”, ed è stato così».