Musei più autonomi e biglietti meno cari. E se la rivoluzione stesse in questa formula? Ne è convinto
Luca Nannipieri, il saggista toscano che dall’avamposto del Centro studi umanistici dell’abbazia di San Savino guida da alcuni anni la riscossa di quelle che lui stesso definisce le “insorgenze” culturali del Paese. La sua è un’estate di tutto lavoro: ultimi ritocchi al libro che uscirà in autunno per San Paolo (il titolo,
L’Italia da salvare, è già un programma) e revisione della proposta di riforma del Codice dei Beni culturali di cui è estensore per la Fondazione Magna Carta. Anche in questo caso, la presentazione pubblica è fissata per settembre. Intanto Nannipieri suggerisce di fare due conti. «Niente di scientifico – avverte – però...».
Però?«Guardiamo un po’ di cifre, va bene? Il ministro Franceschini rende gratuiti i musei statali per una domenica al mese e al primo appuntamento si presentano in 163mila. In primavera abbiamo avuto le Giornate del Fai, con 750 siti visitati da 600mila persone in 48 ore. Aggiungiamo i circa 1.200 festival culturali presenti sul territorio nazionale, la maggior parte dei quali insiste su luoghi di forte attrazione storica e artistica. E poi la quota, sempre più consistente, di volontari che si dedicano alla tutela di realtà culturali piccole e grandi».
Il risultato qual è?«Più che risultato, parlerei di indicazione: gli italiani sono ormai propensi a conoscere il patrimonio attraverso forme di condivisione e partecipazione attiva. Il museo non basta più, è percepito come una giacenza passiva di opere d’arte, mentre la richiesta va nella direzione di un luogo di incontro, nel quale convivano ricerca e progettualità, laboratorio e divertimento. Partecipazione e condivisione, appunto».
Che cosa occorrerebbe fare?«Partire da un dato di fatto, anzitutto. I musei oggi sono poco attraenti, poco inclusivi. Secondo i dati elaborati dall’associazione Civita l’anno scorso 28 milioni di italiani non hanno mai varcato la soglia di un museo. È un pubblico trascurato, quasi colpevolizzato per il fatto di non essere abbastanza colto. Lo dico con un battuta, ma uno stadio oggi è più accogliente di un museo. Per questo bisogna puntare sull’aggregazione, non ci può più arrendere all’idea che il museo sia un posto da visitare una volta sola nella vita».
Sì, ma come procedere?«Il primo passo non può che essere il conferimento di maggior autonomia e di più ampi margini di indipendenza ai musei. Ogni istituzione deve disporre di un budget che le permetta di sviluppare progetti originali, legati alle caratteristiche e alle richieste del territorio. In seconda istanza, va ridotto il più possibile il prezzo del biglietto, cercando di avvicinarsi alla gratuità. Ora come ora il biglietto medio oscilla tra i 10 e i 15 euro: davvero vogliamo stupirci se le famiglie poco abbienti si tengono alla larga? Quattro ingressi arrivano a costare 60 euro, una spesa per molti insostenibile».
E le risorse da dove verrebbero?«Un biglietto meno costoso porta più visitatori, che a loro volta si fanno promotori del museo. Il numero degli ingressi aumentano, i privati hanno maggior interesse a investire. In Gran Bretagna succede già, perché da noi no?»
Forse perché nei musei si diffida dei privati?«È un pregiudizio ideologico, che parte da premesse condivisibili (il patrimonio non può essere svenduto né trasformato in luna park: giustissimo), ma finisce per irrigidirsi in posizioni che non tengono conto della realtà. All’inizio degli anni Novanta fa la legge Ronchey ha rappresentato un primo passo incoraggiante, ma allo stato attuale i privati non possono più accontentarsi della mera gestione dei servizi all’interno dei musei. Anche in questo caso, c’è una logica da rovesciare».
In che senso?«Il Codice dei Beni culturali ha ereditato un’impostazione centralista ormai irrealizzabile. Attribuire per intero allo Stato il compito di garantire la tutela e la conservazione del patrimonio fa ricadere sulle soprintendenze una mole enorme di responsabilità, che spesso finiscono per restare disattese. Occorre partire dal basso, dalle esperienze, ormai numerosissime, di corpi sociali operanti sul territorio a salvaguardia di un convento, di un palazzo, di un castello o di un giardino altrimenti abbandonato».
Le famose insorgenze.«Esatto. È la geografia di un’Italia insospettata, che parte dalla Val di Susa (dove a essere coinvolti in progetti di tutela sono gli immigrati) al borgo disabitato di Craco, in Basilicata, e dalla pieve di Montesorbo, tra Cesena e Forlì, alle chiese rupestri della Puglia. Sono casi in cui i privati o, meglio, i corpi sociali svolgono un ruolo determinante, tornando a rendere disponibile, e cioè pubblico, un luogo altrimenti inaccessibile e dimenticato».