Cesare Cavalleri nel suo studio - .
Una delle espressioni più caratteristiche di Cesare Cavalleri era «ma per carità!», sempre seguita dal punto esclamativo e con una lieve enfasi sul “per”. Se ne serviva quando, durante la correzione di bozze, incappava in un errore più increscioso del solito oppure quando si nominava un autore che riteneva sopravvalutato o un libro che considerava deprecabile. L’esclamazione era un piccolo pezzo di teatro, quasi un autoritratto del “Cesare”, come lo chiamavano gli amici giocando sull’ambiguità di un nome proprio che implica le prerogative del rango imperiale. Per più di cinquant’anni, dal 1966 fino alla sua morte, avvenuta oggi a Milano, Cavalleri è stato effettivamente il Kaiser pressoché indiscusso delle Edizioni Ares, di cui era diventato direttore dopo la giovanile avventura della rivista veronese Fogli. Oltre che della casa editrice, aveva subito assunto la direzione anche di Studi cattolici, mensile fondato una decina di anni prima, ma che sotto la sua guida si è conquistato una rilevanza sempre più ampia e riconosciuta.
Cavalleri ha onorato il suo incarico fino alla fine, anche durante il lungo congedo annunciato lo scorso 23 novembre con una lettera al direttore di Avvenire, Marco Tarquinio: «I medici mi hanno graziosamente comunicato che mi restano 9 settimane di vita. Non immaginavo simile conclusione, ma prendo volentieri atto e mi tuffo nella preparazione immediata al grande salto (quella remota è iniziata, con alti e bassi, nell’adolescenza)». La camera ardente sarà allestita giovedì 29 dicembre alla Casa del Commiato di via Gramsci a Cormano (Milano) dalle 10 alle 18, mentre i funerali saranno celebrati venerdì 30 dicembre alle 11 nella Basilica di Sant'Ambrogio a Milano.
Era stato un destino singolare, quello che da Treviglio – la città in provincia di Bergamo dove era nato il 13 novembre 1936 – lo aveva portato a muoversi con disinvoltura negli ambienti culturali di Milano, sempre protetto dal caustico snobismo da gentiluomo di provincia. «Mi pare evidente che il maggiordomo lo hanno preso a noleggio», lo si sentiva sibilare nel corso di un ricevimento più pretenzioso del dovuto. Della buona borghesia milanese aveva assimilato gusti e passioni: l’entusiasmo per le canzoni di Ornella Vanoni, la curiosità per i dipinti di Tamara de Lempicka, il rispecchiamento nell’etica del lavoro. Non per questo aveva rinunciato alle sue convinzioni di cattolico fieramente ortodosso. Se per scherzo gli si faceva notare che, in fondo, era un po’ modernista anche lui, nell’accezione letteraria riservata ad autori da lui amatissimi (per lui Ezra Pound sopra tutti, a pari merito con il Nobel Saint-John Perse), il “Cesare” trovava immediatamente modo di puntualizzare, così da stornare ogni rischio di equivoco.
Non era un mistero che fosse numerario dell’Opus Dei (le opere di san Josemaría Escrivá de Balaguer sono da sempre un caposaldo del catalogo Ares), né che si fosse laureato in Economia e commercio alla Cattolica di Milano e che per qualche tempo avesse continuato a frequentare l’Ateneo come assistente di statistica: la materia della sua tesi di laurea, eccentricamente dedicata alla ricorrenza fonetica in Leopardi. Di quell’origine vagamente spuria rispetto a tanti altri critici letterari Cavalleri andava orgoglioso, come risulta anche dalla preziosa confessione resa a Jacopo Guerriero nell’autobiografico «Per vivere meglio», apparso da La Scuola nel 2018. L’aver praticato fin dall’origine discipline diverse, elaborando in questo modo criteri di giudizio liberi e originali, era la premessa di un eclettismo che gli aveva permesso di occuparsi non solamente di letteratura, ma anche di arti visive, occasionalmente di musica e, per un lungo periodo, di televisione: «Tra tutti – diceva – è l’ambito che conferisce maggior potere».
Collaborava ad Avvenire fin dalla nascita del giornale, il 4 dicembre 1968. Dapprima come critico televisivo, appunto, in seguito destreggiandosi tra una rubrica e l’altra. La più caratteristica rimane probabilmente Persone & parole, le cui puntate sono riunite in quattro volumi usciti da Ares tra il 1989 e il 2008. Con leggerezza costante e occasionale malizia, Cavalleri era riuscito a rinverdire la tradizione dell’elzeviro, dando prova di una felicità di scrittura che si ritrova intatta nelle altre raccolte dei suoi articoli, sempre edite da Ares: le Letture distribuite lungo il trentennio 1967-1997 (il libro è del 1998) gli Editoriali composti per Studi cattolici (2006). Dal 2008 l’appuntamento settimanale con i lettori di Avvenire andava sotto l’insegna di Leggere, rileggere, a conferma di una fedeltà alla letteratura che per Cavalleri non si esauriva nell’esercizio della recensione esigente e, in alcuni casi, della stroncatura memorabile. Esemplari, in questo senso, alcuni interventi sui romanzi di Umberto Eco, un intellettuale che pure Cavalleri aveva frequentato e stimato per via della comune amicizia con Gianfranco Bettetini, ma che non sempre riusciva ad apprezzare come narratore.
La stessa attività di editore era, per lui, un’estensione dell’attenzione critica. Il bestseller Il cavallo rosso di Eugenio Corti, apparso da Ares nel 1983, è la dimostrazione più chiara di una coraggiosa indipendenza imprenditoriale successivamente ribadita attraverso la valorizzazione della figura e della produzione complessiva del grande scrittore brianzolo. Non meno significativa era stata nel 2016 la pubblicazione di L’opera poetica del romano Elio Fiore, che in Cavalleri aveva trovato già negli anni Sessanta l’interprete più tempestivo e persuaso. Ma c’era un’altra dimensione della letteratura che il “Cesare” coltivava con misurata sprezzatura, ed era quella di poeta in proprio.
Ne resta testimonianza in Sintomi di un contesto (Mimesis, 2019), tardiva plaquette nella quale confluiscono testi risalenti prevalentemente, ma non esclusivamente agli anni della formazione. Dovendo però si dovesse indicare un titolo, uno solo, nel quale il critico converge con l’editore e si sublima nel poeta, la scelta non può non cadere su Il libro della Passione del sacerdote cileno José Miguel Ibáñez Langlois, che Cavalleri aveva tradotto, introdotto e pubblicato nel 1986. Quando gli si chiedeva di leggerne ad alta voce un brano, prima si schermiva con il solito «ma per carità», poi apriva il volume, ritrovava il segno e cominciava a declamare questi versi duri e solenni, che grazie a lui avevano preso voce anche in italiano.