Cesare Cavalleri (1936-2022) - archivio
Pubblichiamo in anteprima ampi stralci dell’intervento “La ricerca instancabile della bellezza”, scritto da Roberto Righetto, già caporedattore della pagine culturali di “Avvenire”, per il numero monografico che la rivista “Studi cattolici” dedica a Cesare Cavalleri, suo direttore per oltre 50 anni. Nelle pagine sono stati convocate persone che hanno conosciuto il giornalista, scomparso il 28 dicembre scorso, in modo da comporre, spiegano il nuovo direttore Andrea Beolchi e il vicedirettore Alessandro Rivali (che ha assunto anche la direzione della casa editrice Ares), «una misurata polifonia in grado di restituire tempi, interessi, occasioni, rapporti assai diversi, ma tutti col sapore dell’intimità » Apre una vignetta di Guido Clericetti che disegna un angelo su una nuvola circondato da libri, riviste e pc e porta la didascalia «Ciao Cesare». Seguono i ricordi di Normann Insam, Alessandro Rivali, Michelangelo Peláez, Giacomo Samek Lodovici, Nicoletta Sipos, Ugo Finetti, Franco Palmieri, Aldo Maria Valli, Giuseppe Romano, Silvia Stucchi, Arrigo Cavallina, Davide Brullo, Bruno Nacci, Riccardo Caniato, Carlo Alessandro Landini, Chiara Finulli, Claudio Pollastri, Matteo Andolfo ed Emanuela Marinelli. Viene ripercorsa la storia della rivista e delle edizioni Ares, l’itinerario di fede del suo direttore e la sua attività di giornalista, critico ed editore. Le pagine contengono un corposo album fotografico e quattro scritti dello stesso Cavalleri che testimoniano delle sue passioni letterarie, come quelle della poesia, non solo in qualità di recensore, ma anche di autore.
Se c’era una cosa che mi accomunava a Cesare Cavalleri era l’amore per la cultura, la convinzione che la ricerca della bellezza, quella vera, è instancabile e, per noi cristiani, a 360 gradi, nella consapevolezza che lo Spirito si manifesta anche dove non è riconosciuto, come diceva san Tommaso d’Aquino. Durante la sua lunga direzione di Studi cattolici, e l’altrettanto lunga collaborazione sulle pagine culturali di Avvenire, spesso rimanevo sorpreso dalla sua apertura culturale, molto lontana dalla rigidità che alcuni gli attribuivano. Ricordo le inchieste che la rivista fece sul conformismo culturale che nei decenni scorsi ha dominato la cultura e l’editoria italiana, o quelle che facemmo noi di “Agorà” sull’egemonia culturale della sinistra. Argomenti condivisi e spesso rilanciati. Ancora, ricordo l’insofferenza che provavamo verso la marmellata spiritualistica che proponeva – e i tempi non sono cambiati molto – buona parte dell’editoria cattolica. Per noi cristiani la fede non va disgiunta dalla ragione, come Cesare stesso ripeteva e ha ribadito nell’ultima intervista a Francesco Ognibene su Avvenire (disponibile QUI). In cui ha avuto il coraggio di lanciare un messaggio a mio parere importante: « Leggere, leggere, leggere, non stancarsi di leggere. Scegliere letture che nutrono: se si cercano bene si trovano. In ogni libro c’è qualcosa di utile, quella frase che ti colpisce, che porta sulle vie del bene». In una società come la nostra che pare aver lasciato l’esperienza della lettura solo a un gruppo definito di “lettori forti”, si tratta di una sollecitazione molto importante. E se è vero che in un altro passaggio della stessa intervista Cavalleri rimarcava come non fosse vero che i cattolici non leggono e che anzi leggono più degli altri, è anche vero che nei tempi più recenti è emersa gravemente la mancanza di cultura del mondo cattolico italiano. Con Cesare mi è capitato di discuterne più volte, al telefono o nei nostri colloqui personali: per porsi come segno di contraddizione, come lo erano le prime comunità cristiane, occorre accettare due sfide: il primato della cultura – e la riscoperta dell’immenso patrimonio teologico del cristianesimo – e la consapevolezza che l’evangelizzazione oggi si svolge attraverso il bello e il buono. Entrambi pensavamo che ci sarebbe stato bisogno che la Chiesa italiana tutta si facesse promotrice di un’iniziativa di largo respiro per superare l’attuale grave stato di stagnazione della cultura cattolica: la cultura è svalutata e si fa coincidere l’impegno nel sociale solo con la carità. La fede cristiana non si esprime al di fuori della cultura (o delle culture) e c’è bisogno di un nuovo immaginario della fede che attragga i giovani. E senza cultura non è possibile. A questa operazione di riscoperta della cultura Cavalleri non era certo indifferente. Il suo impegno culturale aveva un’altra caratteristica rilevante: quando si occupava di libri di qualsiasi tipo, che fossero di narrativa o di saggistica, faceva sempre emergere un giudizio sia etico che letterario. In poche parole, amava la stroncatura. Non per un vezzo o per volontà censoria, anzi. L’ha spiegato lui stesso in un’altra delle sue ultime interviste ad Antonio Gnoli su Repubblica: « In un Paese dove tutti si conoscono, tutti si frequentano e tutti si recensiscono con favore, mi pareva di essere una piccola eccezione. Lanciare qualche pietra contro la società del narcisismo lo ritengo un atto dovuto. È facile parlare bene di Umberto Eco che è stato un grande semiologo, ma i suoi romanzi non mi hanno mai convinto». Per lui la stroncatura era «una forma di contropotere culturale che nessuno più pratica. Eppure è il modo più rapido per arrivare a delle conclusioni chiare. Il compito della critica è puntare il dito contro un’opera senza provare ad abbracciarla come fosse un parente che si accoglie alla stazione». Su questo eravamo totalmente d’accordo: se è importante leggere e invitare a leggere, nel mare di pubblicazioni del nostro Paese è altrettanto importante dare indicazioni, suggerimenti, valutazioni, perché se un romanzo è scritto male è un cattivo servizio che si fa alla letteratura. Lo sosteneva un altro grande critico letterario, Giuseppe Bonura, forse l’ultimo critico militante che abbia avuto la cultura italiana, col quale peraltro Cesare non andava sempre d’accordo. Ed era giusto che fosse così.