Silvio Garattini - Imagoeconomica
Tutti i governi che si sono succeduti in Italia nel secondo dopoguerra, da oltre ottant’anni, hanno dedicato scarsa attenzione alla ricerca scientifica considerandola una spesa anziché un investimento indispensabile per lo sviluppo di un Paese. Società scientifiche, istituzioni e singoli ricercatori hanno fatto sentire la loro voce con varie proposte, ma con scarsi risultati. Non si può comunque rinunciare a ripetere un appello a una maggiore attenzione considerando gli sviluppi delle conoscenze soprattutto nell’ambito delle cosiddette “scienze della vita”, che hanno una grande importanza nel condizionare la salute pubblica e dei singoli.
La situazione attuale è più che preoccupante se consideriamo che l’Italia ha un numero di ricercatori che, rapportato alla popolazione, rappresenta circa la metà della media europea, a cui corrisponde ovviamente una spesa dello stesso ordine rispetto al Prodotto interno lordo (Pil) dei vari Paesi europei. C’è poca speranza di recupero considerando che non c’è differenza fra spesa per ricerca pubblica e privata. Infatti anche la ricerca industriale è molto carente. Basterebbe ricordare che l’industria farmaceutica che spende più in ricerca nel nostro Paese si colloca al 106esimo posto in Europa. D’altra parte continuiamo a perdere ricercatori che preferiscono collocarsi in altri Paesi dove trovano migliori condizioni di lavoro.
Cosa bisogna fare? Anche se può sembrare ovvio, è chiaro che dobbiamo anzitutto aumentare le risorse economiche per la ricerca. Se dovessimo adeguarci alla situazione della Francia, che è un Paese vicino e simile al nostro, dovrebbero essere messi a disposizione almeno 20 miliardi di euro all’anno in aggiunta alla spesa attuale. È facile chiedere, mentre è più difficile e impegnativo stabilire come spendere.
Fondamentalmente sono tre le aree che hanno bisogno di più risorse. Anzitutto il personale. I ricercatori italiani a qualsiasi livello, inclusi quelli industriali, sono mal pagati rispetto alla media dei ricercatori europei. Uno stipendio che arriva raramente ai 2.000 euro mensili netti o una borsa di studio che supera raramente i 20.000 euro all’anno non possono essere uno stimolo a occuparsi di ricerca, perché soprattutto nelle grandi città è quasi impossibile arrivare alla fine del mese e certamente non è pensabile di poter costituire una famiglia, anche in considerazione del fatto che la “precarietà” può durare fino a 35-40 anni d’età.
In secondo luogo, i fondi richiesti devono essere utilizzati per avere laboratori meglio attrezzati con apparecchiature che rispettino gli sviluppi tecnologici. L’automazione e la robotica devono trovare più spazio, perché se è vero che senza conoscenza è difficile, anzi, impossibile sviluppare nuova tecnologia, è altrettanto vero che la tecnologia avanzata è indispensabile per aumentare la conoscenza scientifica. Da questo punto di vista occorre che i ricercatori italiani siano meno individualisti e accettino l’idea di condividere apparecchiature particolarmente costose e di utilizzo non occasionale.
In questo senso, e in attesa di come si svilupperà l’iniziativa, è importante la localizzazione di alcune tecnologie molto avanzate quali, ad esempio, la crio-microscopia elettronica, la genomica presso il nuovo centro Human Technopole a Milano, che verranno messe a disposizione, gratuitamente, dei ricercatori italiani che ne avranno necessità. Sono esempi che dovrebbero essere ampliati anche ad altri tipi di tecnologie, collocando le strutture tecnologiche presso centri che ne hanno conoscenza e volontà di metterle in comune. La terza area riguarda il sostegno a progetti di ricerca attraverso bandi che permettano soprattutto importanti collaborazioni. Per quanto sia importante per fare ricerca, non esiste più solo l’Università ma esiste il Consiglio nazionale delle ricerche, e si sono sviluppate Fondazioni di ricerca non profit, Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (Irccs). È quindi importante stimolare la collaborazione fra enti diversi in condizioni di parità di partecipazione.
Il sostegno alla ricerca riguarda anche le cosiddette spese correnti, con controlli il più possibile collaborativi, evitando l’attuale eccesso di burocrazia. Deve contare la bontà del progetto e non il numero di pubblicazioni con il primo e l’ultimo nome e il cosiddetto H-index o il numero di citazioni dei proponenti. Il numero di progetti che si possono approvare deve essere adeguato per poter fare paragoni fra progetti dello stesso settore. È difficile confrontare la novità di un progetto di gastroenterologia rispetto a un progetto cardiovascolare. Occorre finanziare i veri enti non profit perché molti rappresentano la buona “facciata” di organizzazioni che in realtà hanno scopi di profitto. Deve essere giudicata attentamente la presenza di enti industriali per evitare che predominino interessi privati. Non è possibile che in Italia ormai tutti gli studi su nuovi prodotti – farmaci o dispositivi medici – vengano realizzati da chi li vende. Vanno promosse ricerche indipendenti per essere sicuri che predomini l’interesse per il paziente e non per l’occupazione o il fatturato. Non è possibile, perché non è credibile, che una multinazionale del tabacco finanzi ricerche per un mondo “privo di fumo”. La ricerca deve essere finanziata in modo adeguato per sostenere – quando non vengono già finanziati da enti pubblici – gli stipendi dei ricercatori nonché adeguate borse di studio per aumentare il numero di dottorati in ricerca o di PhD, che oggi sono molto carenti nel nostro Paese.
Occorre studiare l’apporto privato alla ricerca, migliorando l’esenzione dalle tasse sia per i singoli sia per le società finanziarie, commerciali o industriali. Purtroppo la lodevole iniziativa del 5 per mille per la ricerca è stata estesa a molte altre attività, come pure i fondi di cui disponeva in passato l’Aifa per il finanziamento indipendente degli studi clinici controllati, che sono stati dirottati in altre direzioni.
Ricerca indipendente significa selezionare farmaci che non servano solo ad aumentare il mercato ma a essere d’aiuto agli ammalati. Significa fare confronti fra il nuovo farmaco e quello già esistente per la stessa indicazione terapeutica, vuol dire identificare le differenze d’età, di genere e di etnicità, nonché avere risultati più obiettivi riguardanti il rapporto benefici-rischi.
Infine, dal punto di vista legislativo, occorre rimuovere tutti gli ostacoli che si oppongono alla sperimentazione animale che attualmente rallentano lo sviluppo della ricerca e richiedono perfino il pagamento di una tassa per ogni progetto di sperimentazione. In Italia per avere una autorizzazione occorrono 6 mesi, mentre in altri Paesi europei con cui dobbiamo competere per i fondi Ue basta un solo mese. Analoghe semplificazioni sono necessarie nella rendicontazione. Non tutte le ricerche si possono svolgere nei tempi prestabiliti, non tutte le spese possono essere previste quando si presenta il progetto.
L’Amministrazione pubblica poi deve aiutare lo sviluppo della ricerca, mentre oggi lo ostacola.
Non è certamente facile attuare le proposte che ho qui presentato, ma è necessario se vogliamo che l’Italia abbia un futuro!
Fondatore e presidente dell'Istituto di Ricerche farmacologiche Mario Negri Irccs