
Riccardo Moro
La guerra dei dazi voluta da Donald Trump non rischia soltanto di causare crolli finanziari a catena, come sta avvenendo da giorni, nelle Borse di tutto il mondo. Può portare a una «degenerazione delle relazioni internazionali e a un riposizionamento degli Stati e dei continenti che non accettano più il modello neocoloniale degli Stati Uniti». Parola di Riccardo Moro, professore di Politica dello sviluppo all’Università Statale di Milano, uno degli ideatori della campagna giubilare del 2000 sulla remissione del debito da parte dei Paesi poveri, nonché tra i protagonisti della mobilitazione no global a cavallo degli anni Duemila, da Seattle fino a Genova. Venticinque anni dopo, in corrispondenza di un altro Anno Santo, «siamo chiamati a cambiare l’architettura finanziaria internazionale» spiega, ribadendo la centralità di istituzioni come l’Onu e il potenziale della società civile.
Professor Moro, non crede che quell’intuizione profetica di una redistribuzione delle ricchezze sia ormai superata dagli eventi, con il ritorno di protezionismi e di guerre commerciali come quelle a cui stiamo assistendo?
Credo al contrario che si debba andare avanti, tenendo dritta la barra sulla bussola etica dei diritti umani, messi in discussione dal far west in corso nelle Borse. In questi anni abbiamo ottenuto risultati importanti come la “global minimum tax”, un prelievo fiscale sulle multinazionali che ha l’obiettivo di ridare un equilibrio minimo al sistema. È bassa? Sì, ma prima non c’era. Si tratta dunque del segnale che un cambiamento è possibile. D’altra parte, questa fase neocoloniale da parte degli Usa va letta attraverso lenti interpretative corrette, perché l’Occidente non è un unicum, che si parli di Usa, Europa o Giappone.
Da dove partire?
Partiamo dal contesto: siamo dentro un percorso storico di riduzione delle regole senza precedenti. E’ un processo che non è iniziato oggi, ma negli anni Settanta e Ottanta, e ha avuto il suo apice all’epoca della presidenza Clinton. La deregulation ha avuto come effetto la riduzione delle dimensioni degli operatori economici, con una sostanziale concentrazione degli attori di mercato e dunque della ricchezza e del potere. I piccoli, travolti da una globalizzazione mai governata, sono stati travolti e a resistere sulla scena adesso è soltanto chi può incidere economicamente.
I dazi sono stati però un salto di qualità senza precedenti.
I dazi erano inattesi in queste modalità e sono ingiustificabili economicamente. Sono un gesto arrogante, frutto di falsificazioni. È lo stesso approccio dei populismi che falsificano il dibattito lamentando Stato pesante e troppe regole. Dire che le regole inibiscono la libertà è rischiosissimo e serve solo ai potenti per sottrarsi dalle loro responsabilità.
Quale prospettiva vede per i prossimi mesi?
È in atto da tempo, e lo sarà sempre di più, uno spostamento del baricentro internazionale a favore della Cina. Con le nuove tariffe imposte dagli Stati Uniti, tutti i Paesi africani, già legati a doppio filo con Pechino, andranno in Asia a chiedere risorse, anche attraverso organizzazioni come l’Unione africana. Lo stesso discorso vale per l’America latina, ad eccezione dell’amico di Trump, l’argentino Javier Milei. Dal punto di vista geopolitico, occorre tornare a scommettere sul multilateralismo in sede Onu, se necessario isolando proprio gli Usa, per poi riattrarli.
Cosa rimane oggi dello spirito della campagna di remissione del debito che animò l’opinione pubblica nel Duemila?
È un’eredità articolata: conflitti e populismi sono un passo indietro grave, ma quelle azioni hanno generato l’Agenda 2030 che coinvolge tutti i Paesi del mondo e oggi è recepita anche da una parte importante del sistema delle imprese, che si misurano con i parametri Esg su governance, sviluppo e sociale, i punti previsti dall’Agenda 2030. Unendo agenda della lotta alla povertà e agenda sul clima, ci confronteremo a Siviglia a fine giugno, nella quarta Conferenza internazionale sul finanziamento per lo sviluppo, per discutere nuovamente di debito finanziario ed ecologico e di architettura finanziaria. Per questo, è stata lanciata in queste settimane la campagna “Cambiamo la rotta. Trasformare il debito in speranza” da parte di diversi soggetti del mondo cattolico italiano, come Caritas italiana, Azione cattolica, Focsiv, Agesci, Fondazione Missio e Migrantes. La Campagna risponde a un appello lanciato da Caritas internationalis in tutto il mondo, in occasione del Giubileo. Le ragioni per una mobilitazione all’insegna di un mondo più giusto sono rimaste intatte, anzi si sono accresciute.
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