
Un'attività nel Centro di Chiaromonte - Foto dal profilo Facebook del Centro Dca "G.Gioia"
Le mappe dell’Italia sono tutte uguali. Qualunque cosa rappresentino emerge sempre una disparità tra Nord e Sud. Lungo la penisola sono 51 i centri di cura (pubblici, privati e unità ospedaliere) che offrono terapie residenziali per i disturbi del comportamento alimentare. Sotto il Tevere ce ne sono solo quattro: a Salerno, Cagliari, Cosenza e Potenza.
Proprio in Basilicata c’è la struttura che dal 2006 è un’eccellenza del Sistema sanitario nazionale. È il centro regionale per la Cura dei disturbi dell’alimentazione e del peso di Chiaromonte, un paesino di circa 1.700 abitanti nel Parco nazionale del Pollino. «È intitolato a Giovanni Gioia, il padre di una ragazza che soffriva di un disturbo del comportamento alimentare e ha chiesto aiuto ai suoi concittadini per curare la figlia», racconta Rosa Trabace, psicologa e responsabile della struttura fin dalla sua fondazione. È fiera di poter dire che «in questi 18 anni di attività abbiamo preso in cura più di mille pazienti».

A Chiaromonte sono disponibili tutti i percorsi terapeutici: ambulatoriale (0-2 anni di presa in carico), semiresidenziale (15-20 persone in turni diversi), e residenziale di durata variabile, con 16 posti letto e follow-up di un anno prima dell’affidamento ai servizi territoriali. Fino a qualche anno fa in media avevamo una decina di adulti e quattro o cinque minori, ora invece il numero di maggiorenni e minorenni è sostanzialmente lo stesso. In ambulatorio arrivano anche bambini di otto anni, ma per legge possiamo accogliere solo pazienti dai 12 anni in su. Non ci sono invece limiti di anzianità: abbiamo avuto pazienti anche ultrasessantenni», spiega la responsabile.
La mortalità legata ai disturbi alimentari è tra le più alte in ambito psichiatrico, in particolare l’anoressia nervosa presenta tassi di mortalità molto elevati, anche per le sue complicanze fisiche. Nel 2023 i decessi correlati ai disturbi alimentari sono stati più di 4mila, con un’età media di 35 anni. La fascia di età più vulnerabile resta quella tra i 12 e i 18 anni, ma la malattia non fa più distinzione: i disturbi alimentari riguardano gli adulti, con una crescente incidenza di esordi tardivi, anche tra i 40 e i 50 anni. Ciononostante «si crea un clima di cooperazione, supporto tra gli adulti e i ragazzi», sostiene Trabace.
La quotidianità per i pazienti del centro di Chiaromonte è ricca di attività: ippoterapia, corsi di arte, yoga, colloqui con psicologi e dietisti, redazione di un giornalino mensile. Le ore sono scandite dai pasti assistiti, consumati sempre in presenza di medici ed educatori. Per riavvicinare i pazienti al cibo «abbiamo avviato dei percorsi di familiarizzazione: dallo studio delle proprietà nutritive, alla manipolazione degli ingredienti fino alla preparazione dei pasti a cura dei pazienti. C’erano dei ragazzi che, quando sono arrivati, scolavano le goccioline d’olio dai piatti», dichiara Trabace. A questo si aggiunge l’educazione nutrizionale con i familiari, che trascorrono il fine settimana con i pazienti in autogestione.

Tra le figure che offrono sostegno nel percorso di riabilitazione ce n’è una molto originale, presente dalla nascita della struttura: l’assistente filosofico-spirituale. È don Vincenzo Appella, anche professore alla Pontificia Facoltà Teologica di Napoli. Racconta che tutto «è iniziato come una forma di volontariato, rispetto al quale avevo anche un pregiudizio: non conoscevo bene la realtà dei disturbi alimentari, pensavo si trattasse di andare da ragazze che vogliono fare le modelle». Fin dal primo momento si è scontrato con la realtà: al centro ha conosciuto suoi coetanei. Così è nato il “gruppo di Enzo”: «Sono nella struttura il sabato e la domenica per gli incontri con i pazienti, le riunioni con i genitori, e con l’équipe che segue i ragazzi nelle terapie tutti i giorni».
Pur essendo un elemento esterno e con un ruolo di difficile definizione, in questi 18 anni il “gruppo di Enzo” è diventato un tassello importante nel percorso terapeutico. «La mia presenza lì non è missionaria, risponde a un bisogno funzionale di un momento di riflessione diversa. Non mi presento come un prete e non faccio lezioni di catechismo: faccio compagnia a questi ragazzi attraverso ragionamenti che sono complicati e dolorosi».
Don Enzo si approccia con prudenza: «Cerco di attirare l’attenzione con spirito volutamente da saltimbanco, per aprire lo spazio per un dialogo. Quando poi svelo la mia identità di prete, nonostante lo stupore in alcuni casi, non vengo mai respinto». Questo dipende anche dal tipo di riflessioni che vengono proposte negli incontri: si leggono brani di filosofi, scrittori, poeti che portano ad approfondimenti esistenziali.
Il tentativo del sacerdote è «evitare che si arrivi a giudizi di valore e a spostare la questione, bisogna imparare ad andare più a fondo: questi ragazzi vengono da un mondo complesso, da un rapporto faticoso con sé stessi e con la vita, bisogna cercare piano piano un valore, un senso». Anche lui negli anni ha riscontrato l’abbassamento dell’età dei pazienti e questo ha richiesto una delicatezza e un’attenzione ulteriore: «Si tratta in ogni caso di pazienti che già hanno una struttura mentale di difesa, ma ho visto ispessirsi questa “scorza difensiva”. Cercano di vivere in un altro mondo per cui è aumentata la difficoltà di stabilire un contatto».
Però, sostiene don Enzo, è un appuntamento diventato insostituibile per lui: «Conservo con cura tutti i bigliettini, che negli anni sono diventati molti, che mi vengono scritti dai pazienti al termine del percorso. Indipendentemente da come procederanno poi le loro vite, chi lo sa, mi fanno sentire orgoglioso di loro, e provo un senso di consolazione per questo dolore».