L'Italia non riconosce la maternità surrogata. Dunque quel bimbo è come se fosse figlio di nessuno. E per questo deve essere dato in adozione. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, chiamata per la prima volta a pronunciarsi su un caso di utero in affitto. Una sentenza storica, che sembra sconfessare la linea ben più indulgente sinora seguita sulla stessa materia da altri tribunali italiani. E che, nella sua semplicità, fa propri inoppugnabili dati di fatto: per «l’ordinamento italiano, madre è colei che partorisce», e questo ordinamento «contiene un espresso divieto, rafforzato da sanzione penale, della surrogazione di maternità».I fatti giudicati dalla Cassazione prendono le mosse a Ricengo, provincia di Cremona, paesino rurale della Bassa padana. Lì una coppia che non riesce ad avere figli, e a cui per tre volte è stata negata l’adozione, decide di ricorrere alla maternità surrogata presso la clinica Biotexcom di Kiev (Ucraina). L’uomo fornisce il seme, una donna diversa dalla moglie l’ovocita e l’ovulo così fecondato è impiantato nel ventre di una terza ragazza. Il piccolo Tommaso viene alla luce 3 anni fa, e secondo la legge del luogo è registrato come figlio della coppia cremasca. I due tornano a Ricengo, e si presentano in Comune per trascrivere il certificato di nascita tacendo le circostanze del parto. Ma il paese è piccolo, l’ufficiale di stato civile ha presente la donna ed è certo che non abbia condotto nessuna gravidanza. È lui a fornire alla Procura di Cremona la notizia di reato. Le indagini accertano che il bimbo non è figlio nemmeno dell’uomo: in un clima di accuse reciproche tra clinica e famiglia, nessuno spiega il perché. Il Tribunale per i minori di Brescia mette il figlio in adozione. La Corte d’appello conferma la sentenza. E, ieri, la Cassazione posa una pietra tombale. Ora sulla coppia pende anche un procedimento penale per alterazione di stato di minore.