Stefano Ojetti, presidente nazionale Amci
Nascita, vita, dolore, sofferenza, malattia, vecchiaia e morte fanno parte della condizione umana. La nostra società, tesa a esaltare i valori dell’individualismo, dell’efficientismo tecnologico e del massimo rendimento economico, ha finito per ridurre l’uomo a uno strumento ottimale ai fini del profitto, dequalificando, squalificando, emarginando o annullando chi non è più inserito in un ruolo produttivo.
Il nostro tempo è caratterizzato da un’autentica rivoluzione della medicina, dal crescente sviluppo di conoscenze scientifiche e tecnologiche, indagini diagnostiche e innovazioni terapeutiche. Ed è proprio per merito dei grandi progressi della medicina che oggi si possono salvare vite un tempo considerate perdute, ma anche assicurare una migliore qualità della vita, oltre che naturalmente un aumento della sopravvivenza.
La tecnologia però fino a quando rimane al servizio del paziente assume valore etico, ma può divenire, al contrario, puro tecnicismo quando si limita a servire solamente la scienza; in quest’ ottica il medico rischia di diventare curatore di organi e non più di organismi. Occorre allora, nell’era della Intelligenza artificiale, ri-umanizzare la medicina, orientandola quanto più possibile verso la persona, considerata nella sua interezza fisica e nella sua dignità.
Sul portale del più antico ospedale di Parigi, l’Hotel Dieu, appare questa scritta: «Se sei malato vieni, ti guarirò, se non potrò guarirti ti curerò, se non potrò curarti ti consolerò». Tre verbi nei quali è compendiata la professione medica: guarire, curare, consolare. Il guarire e il curare fanno parte dell’Ars medica, il consolare eleva il medico a pater e lo rende buon samaritano.
Come afferma papa Francesco, «la prima cura di cui abbiamo bisogno nella malattia è la vicinanza piena di compassione e di tenerezza». In questo contesto si comprende quanto sia fondamentale la figura del medico nelle fasi finali dell’esistenza. “Prendersi cura” è cosa ben diversa dal semplice curare, significa certamente alleviare il dolore fisico ma anche quello morale che inevitabilmente si accompagna al calvario della malattia. Nel malato c’è il bisogno della compassione, “cum passio”, del soffrire insieme, che significa entrare in sintonia con lo stato d’animo del paziente ed essere per lui un sostegno che si realizza soprattutto nell’ascolto. Ma questo a noi riesce molto difficile perché apparteniamo alla civiltà del fare.
Accanto al malato possiamo imparare ad ascoltare, come sapevano fare i nostri vecchi, a comprendere, a condividere la sofferenza dell’altro e a consolare. L’arte di consolare si deve nutrire di dolcezza, più che provocare turbamento e angoscia. Quanto occorre allora stare attenti anche nel colloquio col malato a non parlare con faciloneria o superficialità: il silenzio alcune volte può essere una medicina.
Ma il sofferente non ha bisogno solamente di essere ascoltato: vorrebbe porre delle domande sul perché della sua sofferenza fisica che a volte si protrae troppo, vorrebbe delle risposte ma spesso non osa chiedere. Allora occorre stabilire un contatto autentico, facendo emergere le parole più idonee della nostra comprensione. È in quel momento che il paziente spesso, esce dalla sua solitudine, dal suo silenzio e parla delle sue paure: paura di non saper gestire la propria fine, del degrado della propria immagine, della separazione dalle persone che ama, del distacco dalle sue cose cui è fortemente attaccato. C’è anche una paura metafisica, che è la paura del passaggio, del dopo. Il paziente è l’attore principale della salute, ne è il soggetto. E il dovere del medico pertanto deve essere quello di curare il malato e non soltanto la sua malattia.
È in questo contesto che necessariamente si deve inserire la figura del medico che deve essere capace di alleviare non solo la sofferenza fisica del paziente ma anche quella morale, aiutandolo a vivere con dignità questa sua ultima esperienza umana.
* Presidente nazionale Associazione medici cattolici italiani (Amci)