venerdì 5 giugno 2015
​Le motivazioni della Consulta: solo per coppie fertili con patologie. Su questo tema chiamate ad intervenire le Camere.
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Spetta al Parlamento l’”individuazione (anche periodica, sulla base della evoluzione tecnico-scientifica) delle malattie” per cui è possibile effettuare la diagnosi pre impianto. Ma tali malattie devono rispondere al “criterio normativo di gravità” per cui la legge 194 del 1978 consente l’aborto oltre il terzo mese di gravidanza. E attenzione: l’accertamento dei singoli casi dovrà essere compiuto da strutture pubbliche previamente autorizzate e periodicamente controllate. La sentenza 96/2015, depositata stamattina dalla Corte costituzionale, conferma quanto anticipato da Avvenire nelle scorse settimane: il divieto di diagnosi pre impianto è caduto solo parzialmente, e ci soono molti paletti. Innanzitutto, il rimando ai casi in cui la legge 194 del 1978 consente l’aborto oltre i primi 90 giorni di gestazione implica che per ricorrere alla diagnosi pre impianto non sarà sufficiente una seria malformazione del feto, ma servirà pure la dimostrazione che tale anomalia è idonea a provocare un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. Poi un altro limite: queste circostanze, perché possano dar diritto alla diagnosi pre impianto, dovranno avere come presupposto solo e unicamente una serie di gravi malattie messe nero su bianco dal Parlamento. Ma c’è altro: l’accertamento di tutte queste condizioni dovrà essere svolto da strutture pubbliche, e ancora una volta è onere del potere legislativo stabilire per tali centri da una parte forme di autorizzazione e controllo, dall’altro le procedure sulla scorta delle quali operare. Conseguenza pratica: il divieto assoluto continuerà a rimanere in vigore finchè il Parlamento non avrà legiferato. La Consulta, tra le righe, smonta anche la teoria del “diritto al figlio sano”. E giudica incostituzionale il divieto di diagnosi pre impianto nei soli casi in cui lede il diritto alla salute della donna. Premessa indicata dalla Corte per fondare la sua (limitata) apertura è che l’aborto risulta più invasivo rispetto alla selezione previa degli embrioni; e che, nei casi in cui la malformazione del feto è in grado di provocare seri pericoli al fisico o alla psiche della donna, quest’ultima può ricorrere alla soppressione del nascituro anche oltre i 90 giorni di gravidanza. Alla luce di ciò, i giudici costituzionali hanno ritenuto “irragionevole” impedire alla donna di eliminare il feto in sede di diagnosi pre impianto, quando poi – se lo volesse – ben potrebbe farlo a gestazione già avanzata. Ma, su questo, medici e giuristi non sono per nulla concordi. Nei prossimi giorni è atteso un pronunciamento ufficiale del Ministero della salute.
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