martedì 25 marzo 2025
Davanti a una vita che si spegne e a un corpo che cede alla malattia come deve comportarsi un professionista della salute? Un celebre oncologo si interroga, ricordando il cardinale Martini
«Io medico e i miei gesti d’amore. Sino all’ultimo»

Agenzia Romano Siciliani

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«La prima reazione che ho avuto è stato un terrore cieco, sordo, una paura che non avevo mai provato prima e che mi sembrava paragonabile a quella di chi sta nel braccio della morte aspettando l’esecuzione della propria condanna, o a quella dei soldati in trincea. E poi la rabbia: perché a me?». È quanto mi ha scritto una paziente alla quale era stato diagnosticato un cancro, poche righe che esprimono angoscia, paura, incredulità. In questi frangenti il malato avverte una struggente solitudine, futuro buio. Anche se attorno a sé ha amore, il dramma del vuoto lo assale. E si fa molte domande a cui è difficile rispondere. Domande che, scava scava, tentano di arrivare alla radice del perché, ma che restano senza risposte. È come se si continuasse a grattare una crosta che si lascia permeare fino a un certo punto dalla scienza, ma non centra il nocciolo, il primum movens del fenomeno. Si esce così dalla razionalità e si naviga in una nebulosa dove il nostro essere continua a cercare nel mistero e rimanda a ragioni filosofiche e\o teologiche. E qui si è soli.

Quelle che sono sempre state considerate le proprie certezze, razionali e/o religiose sembrano venire meno. La malattia pone tutti sullo stesso piano: laico, ateo, credente, non credente, è il momento in cui ci si ferma a riflettere e pensare, in un silenzio in cui nascono domande e si cercano “perché”. “Perché” ai quali non è facile dare un senso. Si accetta quello che è capitato, non si hanno risposte pienamente persuasive, e tutto rimane aperto. Sono situazioni, momenti, esperienze in cui la Parola di Dio sembra essere smarrita. Colui che si definisce credente non può ignorare questi interrogativi e si deve confrontare con quelle che sono le domande vere. Chi crede troverà una risposta nella fede, l’agnostico continuerà a cercare, l’ateo tenterà di trovare un equilibrio nelle cose del mondo. E quando il malato si avvicinerà alla fine, è qui che io medico dovrò dare il massimo per rendergli questi momenti i più sereni possibile e colmare la sua solitudine. Dovrò impegnarmi nell’alleviargli i dolori, nel riempire i giorni con la mia presenza. So che devo accompagnare, ma non devo intraprendere inutili trattamenti. So che l’accanimento terapeutico va proscritto, so che il malato deve essere tutelato da chi non vuole che la natura “faccia il suo corso” e che il dolore “tra lo stridor di denti” è una ignominia. So tutte queste cose e, nei momenti ultimi di chi mi sta di fronte, divento il difensore del suo corpo e della sua mente. Compagno di una persona che non potrà guarire ma che non dovrà soffrire, e sarà mio dovere fare di tutto perché il passaggio sia sereno e vengano rispettate le sue volontà.

La morte del cardinal Martini, a questo proposito, è stata esemplare, e le modalità con cui ha voluto fosse garantito il “passaggio” hanno ulteriormente riempito di responsabilità il ruolo di chi cura. Martini, grande uomo di cultura e di fede, testimone moderno di una Chiesa attenta ai bisogni degli umili e dei deboli, ha chiesto per non soffrire di essere sedato e ha ribadito col suo gesto che difendere la vita significa fare in modo che si concluda serenamente. Ha fatto capire che il sedare e l’evitare inutili dolori sono il dono che il medico può fare a chi, debole, l’ha scelto come compagno di percorso. Cure palliative e sedazione sono dunque un gesto d’amore che io dovrò perseguire con determinazione e offrire al malato . Ma, nonostante i miei sforzi, altra potrebbe essere la sua volontà. In tal caso non sarò io a fornirgli i mezzi per il suicidio ma non lo abbandonerò mai, gli terrò la mano nel momento di “passaggio” e sospenderò qualsiasi giudizio nel rispetto del suo dramma.
*Presidente emerito Cipomo (Collegio italiano Primari oncologi Medici ospedalieri)

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