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Ci sono movimenti inavvertibili m profondi negli stati d’animo e nelle idee dell’opinione pubblica, provocati da fatti rilevanti, letture della realtà largamente diffuse, opinioni e giudizi che si affermano come certi. Senza rendercene conto, ci troviamo a «pensare come tutti» sposando un modo di vedere il mondo e la vita che fino a poco tempo prima ci sarebbe sembrato inaccettabile e mettendo da parte come impresentabili idee che invece parevano costituire il fondamento delle nostre convinzioni. La brusca accelerazione impressa dalla comunicazione digitale a questi fenomeni di smottamento della mentalità ha fatto il resto, producendo un passaggio repentino da un sistema di idee a un altro reso moneta corrente.
Un caso da manuale è l’affermarsi apparentemente inspiegabile in Italia dell’idea che «quando una persona soffre e non ce la fa più è giusto che lo Stato le permetta di morire». È il principio dell’autodeterminazione assoluta che fa da architrave alla campagna per il suicidio assistito legale, giunta al primo traguardo formale in Italia con la legge regionale della Toscana varata l’11 febbraio e appena promulgata dal governatore Eugenio Giani.
Siamo dell’opinione che la neo-lingua con la quale ci è stata raccontata vada messa a confronto con i nudi fatti, spogliandola della sua narrazione solidaristica: la «morte medicalmente assistita» è la versione educata di quella che resta la tragica scelta suicida di una persona scoraggiata per una malattia inguaribile e piagata dalla sofferenza fisica, psichica e interiore. Una condizione che è di per sé un grido a noi tutti che formiamo la sua comunità perché la aiutiamo a sollevare insieme il peso insopportabile di questo dolore profondo, ciascuno per quello che può: noi con la compagnia personale e il sostegno di una collettività solidale ed empatica, le istituzioni con cure all’altezza di una situazione fattasi drammatica, a cominciare dal dovere di togliere un dolore continuo e disgregante che impedisce di compiere scelte consapevoli.
Eccoci al punto, con le sue domande inesorabili: perché la certezza del dovere di curare qualunque paziente in questa situazione ha ceduto il passo nell’opinione oggi dominante all’idea che curare e aiutare a morire siano in fondo opzioni egualmente legittime? E com’è possibile che l’aiuto attivo a far morire un sofferente sia già arrivato a rientrare nelle prestazioni cui è tenuto il personale sanitario del servizio pubblico «in orario di lavoro»? E infine: come si può compaginare questa idea con il dettato della Costituzione che all’articolo 32 ancora dice con parole inequivoche, pesate una per una dai padri costituenti,che «la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti»? Un concetto nel quale l’idea della povertà e del bisogno (materiale, ma anche morale) aggiunge al diritto di essere curati sempre un aspetto davanti al quale non sono ammesse scorciatoie: nessuno può essere abbandonato alla sua disperazione, mai.
Il fenomeno di bradisismo etico al quale stiamo assistendo ha portato invece a considerare possibile che un medico, un infermiere, un professionista della salute cooperino a nome di tutti i cittadini alla morte attivamente cercata da una persona nel momento della sua massima vulnerabilità.
Schiudere la porta a questa convinzione equivale a considerare progressivamente lecito che chiunque possa chiedere e ottenere di farla finita, piegando così per via ideologica la ripugnanza che genera ancora il gesto di una persona che vuole suicidarsi. Il proclamato «diritto di morire» – negato a chiare lettere, ricordiamolo, dalla Corte costituzionale – viene fatto entrare nel novero dei «diritti civili», come un’affermazione di libertà contro la costrizione e la condanna a soffrire. A noi pare un’affermazione antiumana, alla quale la coscienza resiste.
A questa «società dello scarto» – per usare un’espressione cara a papa Francesco – che accetta di lasciare indietro le persone vulnerabili fino ad aiutarle a sparire opponiamo quella «società della cura» che è nel cuore, nelle mani e nella storia millenaria di questa terra di Toscana e dell’intero Paese, e che si vorrebbe rendere invece un’idea come un’altra. Mentre è il terreno comune che ci tutti ci sostiene.
*Pubblicato su "L'Araldo Poliziano", settimanale della diocesi di Siena-Montepulciano-Chiusi-Pienza