
La spesa, al supermercato, per il 23% degli italiani è diventata una faticosa conta. E c'è chi non può permettersi le fragole - Ansa
Le statistiche dell’Istat, quelle che parlano di un aumento del rischio di povertà delle famiglie italiane, lette sui comunicati stampa dicono poco. Mettono in allarme solo studiosi e addetti ai lavori, fanno titolo un giorno su (alcuni) quotidiani e polemica politica fino a sera, poi si passa ad altro argomento a scelta. Ma quel 23% di cittadini – quasi uno ogni quattro – che è a un passo dal cadere in povertà, quel lavoratore ogni dieci che è povero anche se un’occupazione ce l’ha, quei genitori che hanno ancora quasi il 9% in meno di possibilità di spendere rispetto a ben 18 anni fa, beh quelli li vedi in carne e ossa se solo vai al supermercato a fare la spesa. Si rigirano un pacchetto di biscotti tra le mani per saggiarne la convenienza, neppure dovessero acquistare un’automobile, stanno attentissimi alle offerte, si tengono lontano dalla carne. A impressionare di più sono certi pensionati, almeno uno lo vedi sempre, che alla cassa hanno meno di dieci prodotti e una banconota da 20 euro: se il conto arriva a 21, lasciano giù il pacchettino di fragole, perché più di quello non si può spendere.
Con l’aumento di tutti i prezzi e più ancora i forti rincari delle bollette di gas e luce negli ultimi anni – mentre stipendi e pensioni sono rimasti sostanzialmente fermi – non occorrono grandi studi d’economia per cogliere come una fetta sempre più consistente di popolazione si stia impoverendo e quella che 20 anni fa godeva di redditi medi oggi incontri più difficoltà, scivoli verso il basso nella scala sociale. Piuttosto c’è da capire come siamo arrivati fin qui, perché progresso e sviluppo del Novecento si siano interrotti.
E, soprattutto, come sia compatibile oggi tutto ciò con altri dati, quelli che testimoniano un tasso di occupazione mai così elevato, una disoccupazione ridotta ai minimi e un’inattività ancora assai consistente ma comunque in calo. La risposta più semplice è che il lavoro stesso – quello dipendente – si è impoverito: in remunerazione ma anche in qualità per una buona parte degli italiani. Perché il sistema economico, soprattutto il comparto industriale che era il fiore all’occhiello e il motore primo del Paese, si è sfilacciato. Abbiamo perso molti grandi campioni, restiamo ancorati a un sistema di piccole aziende, flessibili sì ma non in grado di essere all’avanguardia nello sviluppo di nuove tecnologie e processi, scontiamo una scarsa produttività di sistema. I servizi non hanno supplito creando sufficiente valore, specializzazione e innovazione.
Nel frattempo, il mondo si è “allargato”: la globalizzazione ha fatto emergere nuovi attori economici agguerriti, mentre noi eravamo alle prese con due esigenze: rimettere in ordine i conti pubblici e moderare l’inflazione che rischiava di erodere tutto. La moderazione salariale ha svolto un ruolo fondamentale in questo a fine secolo scorso, ma la politica dei redditi difende i più poveri solo se si applica veramente a tutti i redditi e si riflette sui prezzi moderandone la crescita. E invece ha finito per offrire il terreno ideale su cui innestare tre trasformazioni negative: la finanziarizzazione dell’economia, un modello di produzione competitivo per bassi costi e non per qualità, la remunerazione del capitale assai più che del lavoro.
Oggi allora lascia il tempo che trova accusare i sindacati di non aver protetto abbastanza i salari, “distratti” da operazioni più politiche, perché era ciò che si è chiesto loro come “responsabilità” negli ultimi decenni e guai se si proclamavano scioperi. Così come ha ben poco senso ora limitarsi a discutere di salario minimo per legge sì o no, come se fosse lo strumento decisivo e generalizzabile, quando invece dovrebbe essere utilizzato solo in maniera sperimentale e limitata per non penalizzare la contrattazione, in grado di tutelare più efficacemente la generalità dei lavoratori. Piuttosto, c’è da sedersi a un tavolo per vedere come estendere i contratti, ridefinirne materie e pesi nei nuovi scenari, come legare sempre più la partecipazione dei lavoratori ai risultati delle imprese. Occorre agire ancora sulla leva fiscale per alleggerirne il peso sul lavoro salariato e aumentarne quello sulle rendite, soprattutto far pagare il dovuto davvero a tutti. Per chi ha redditi minimi sentir parlare della rottamazione delle cartelle fiscali, di un ennesimo regalo agli evasori suona come uno scandalo.
Esiste un’asimmetria pesante tra la diffusione mensile dei dati sull’occupazione e la comunicazione appena due volte l’anno del livello di povertà assoluta, che riguarda 5,6 milioni di italiani, e del rischio di esclusione sociale per altri 13,5 milioni di cittadini. La cadenza andrebbe invertita per ricordarci, almeno ogni 27 del mese, di chi quel giorno conta gli spiccioli o fa la fila alla Caritas. Non ci si può limitare a sbandierare come un successo il calo della disoccupazione e addirittura vantarsi dell’esclusione di 800mila famiglie dai sostegni contro la povertà. C’è un’emergenza povertà nel nostro Paese che non va nascosta sotto il tappeto ma affrontata come una priorità.