E un nodo da sciogliere Siamo arrivati a Pasqua, e siamo ancora dentro una catena di giorni complessi. Non solo per le condizioni in cui ci pongono, per l’incertezza nella quale ci piazzano, ma soprattutto per gli interrogativi che improvvisamente si fanno avanti. In questa tabula rasa, molte abitudini e certezze si sgretolano. Ma stiamo pure terra terra. Le domande valgono per la vita di ognuno di noi, ma anche per le questioni collettive che proprio a causa dell’isolamento ci fanno ripensare alla nostra convivenza in una società organizzata. Molti sono i dubbi: sul modello industriale, sulla nostra accettazione dell’inquinamento in cambio di chissà quali vantaggi, sul modello e l’orario di lavoro, sul modello di aggregazione 'compulsiva' o forzata, sugli spazi degli uffici, delle scuole e delle università, delle case.
C’è un dubbio generale che serpeggia in questi giorni di Covid-19. È vero che vogliamo riprendere al più presto la nostra vita sociale, ma la vogliamo in ciò che essa ha di liberatorio: stare otto ore chiusi in un ufficio o in una fabbrica o in una istituzione educativa è davvero una buona idea? Tenere i bambini chiusi nelle scuole è una buona idea? E gli anziani negli ospizi? E i lavoratori in una fabbrica o in un ufficio? Viene insomma messo in discussione il formato che nostra società ha dato alle istituzione e la loro conformazione architettonica, urbanistica, organizzativa.
E adesso passiamo al punto più spinoso. I luoghi della cura. Cura medica, soprattutto. Siamo convinti che gli ospedali, le cliniche, gli ambulatori così come sono concepiti e costruiti siano la soluzione al problema salute/malattia? Chi ha frequentato le analisi storiche di Michel Foucault sulla nascita della clinica moderna non può fare ameno di pensare che l’ospedale nasca per una esigenza di concentrazione dei malati a fini utili alle facoltà di medicina. La concentrazione offre una casistica a portata di mano, e una gran quantità di soggetti da potere studiare e confrontare.
Diciamo che la clinica è funzionale alla professione medica e non viceversa. Se vogliamo fare un passo ulteriore un testo molto contestato di Ivan Illich, 'Nemesi Medica', affermava che una gran quantità di malattie diffuse nelle società attuali sono di origine iatrogena, cioè sono incubate e prodotte negli stessi luoghi che dovrebbero curarle. Un’affermazione abbastanza ovvia e che si riscontra purtroppo in questi tristi giorni. Il personale medico ne è prima vittima con un tasso altissimo di decessi e di contagi. E le morti in ospedale attestano che questi sono dei luoghi in cui si conduce una lotta straordinaria contro il virus, ma anche quelli in cui i già debilitati lo possono contrarre.
Non è strano che in un momento in cui ci si chiede di stare a casa la soluzione per chi è ammalato è la concentrazione, fianco a fianco con altri malati? Non vorrei venire equivocato: gli ospedali in Italia in questo momento sono la prima linea della battaglia, ma come tutte le prime linee sono luoghi particolarmente fragili e soggetti al fuoco di fila ostile. Uno dei motivi per cui le battaglie si vincono più con la guerriglie che con la trincea è che la linea di fuoco avversa raggiunge più facilmente chi si è concentrato in un luogo solo e definito. In questi giorni si discute molto di sanità, del disastro di una sanità a cui sono state sottratte risorse fondamentali. Perché non discutere anche del modello di sanità che vogliamo? Anni fa Renzo Piano mi aveva chiesto di dargli una mano per concepire il progetto di un ospedale diverso, come gli era stato richiesto da Umberto Veronesi. Studiammo un anno, confrontammo le esperienze più avanzate che, guarda caso, erano nate associazioni di pazienti che si erano ritrovati a soffrire del modo con cui gli ospedali erano concepiti.
Poi non se ne fece nulla, credo che i potenziali finanziatori si ritirarono. Eppure la questione, come si vede in questi giorni è urgentissima. La sanità va completamente ripensata, evitando il modello 'istituzione totale', sempre più irrazionale, e cercando di fornire al territorio un ventaglio di luoghi dove i malati possano essere curati senza dovere arrivare ad alte densità. È un modello percorribilissimo soprattutto oggi. Con l’informatica, la connessione tra vari poli terapeutici e con l’idea che quando è possibile occorre tenere il paziente solo il tempo necessario alle cure più importanti. Senza cadere nel paradosso che per isolare i pazienti bisogna concentrarli. Faccio queste mie considerazioni senza pretendere di saperne più dei medici, per carità, ma con l’esperienza di architetto e antropologo che mi ritrovo e con gli incontri fortunati con progettisti che hanno ripensato il modello di sanità. E non ultimo come allievo di Ivan Illich, che ha avuto il coraggio in tempi in cui queste discussioni erano impossibili, di metterle sul tappeto sotto gli occhi di tutti. Dove oggi indubbiamente sono.