mercoledì 10 novembre 2021
La prescrizione del reato avviene dopo ben 15 anni, ma in tantissimi casi non è abbastanza per arrivare a una sentenza definitiva. Perché serve una Procura nazionale dedicata
Tempi dei processi troppo lunghi quando c'è un morto sul lavoro

Ansa

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«Voglio sapere perché mio marito è morto: quanto dovrò ancora aspettare?». Il grido di dolore di Debora Spagnuolo è lo stesso di migliaia di familiari di vittime del lavoro che, da anni, attendono la fine dei processi sull’infortunio che ha ucciso il proprio congiunto. La signora Spagnuolo attende ormai da più di dieci anni, che hanno prodotto una sentenza di condanna di primo grado e ora aspetta l’avvio dell’appello. A meno di cinque anni dalla prescrizione del reato fissata per il 2026, 15 anni dopo i fatti. Sembra un periodo sufficientemente lungo, addirittura doppio rispetto ai tempi di prescrizione dei processi per omicidio colposo “normali”. Eppure in tanti, troppi casi, non è abbastanza per arrivare a una sentenza definitiva, che dica chiaramente, in un’aula di tribunale, di chi sono le responsabilità per le morti sul lavoro. Una strage infinita che, soltanto nei primi nove mesi del 2021, ha provocato 910 denunce all’Inail, al ritmo di più di cento al mese.

A rimettere in agenda il fenomeno della «giustizia tardiva» che, inevitabilmente, diventa «giustizia monca», era stato, nelle scorse settimane, lo stesso direttore generale dell’Ispettorato nazionale del lavoro, Bruno Giordano: «In 14 anni ci sono state 15mila morti sul lavoro e 10 milioni di infortuni, con una media di 700mila all’anno – ha ricordato durante un’audizione in Parlamento sul disegno di legge del Movimento 5 stelle per l’istituzione della Procura nazionale del lavoro –. Avremmo dovuto avere 15mila sentenze di responsabilità amministrativa a carico delle aziende: perché ne abbiamo solo alcune centinaia?», ha chiesto Giordano. Per rispondere è necessario tornare al racconto di Debora Spagnuolo, rimasta vedova a 39 anni, l’11 maggio 2011, cinque giorni dopo aver festeggiato il 37esimo compleanno del marito Giuseppe Esposito.

L'ultimo momento felice insieme, dopo sette anni di matrimonio e altri otto di fidanzamento. Progetti di vita e sogni spazzati via in un attimo, quello che è bastato per far precipitare Giuseppe dalla copertura alta dodici metri di un capannone di Formia, in provincia di Latina, su cui era salito per montare i pannelli fotovoltaici e che non ha retto il suo peso. E soltanto il gran caldo di quel giorno di primave- ra ha impedito che la tragedia fosse doppia: con Giuseppe, su quel capannone, ci doveva essere anche il collega Mario, che però era sceso a prendere dell’acqua. Una circostanza che gli ha salvato la vita.

Per la morte di Giuseppe è stato istruito un processo, iniziato un anno e mezzo dopo l’incidente. In diciotto mesi il procedimento è stato prima assegnato a Gaeta, poi trasferito a Cassino per approdare, infine, a Latina. Nel frattempo, le udienze venivano continuamente rinviate per «difetto di notifica » con ulteriore dilatazione dei tempi. Il processo è così andato avanti al ritmo di due udienze l’anno, poi scese a una, fino alla sentenza del 19 settembre 2019, che ha visto la condanna a 24 mesi con la condizionale del proprietario del capannone e del datore di lavoro, poi deceduto. La difesa ha fatto ricorso in appello e la prima udienza è fissata per il 17 dicembre. «Spero tanto che, a questi ritmi, non si arrivi alla prescrizione», sospira la vedova di Giuseppe Esposito, che, in questi anni, è riuscita a «tirare avanti», soltanto grazie «alla mia famiglia d’origine» e all’Anmil, associazione di cui è anche diventata vicepresidente nazionale.

«Come si fa ad avere fiducia nella giustizia se, a dieci anni di distanza, non so ancora perché mio marito è morto e di chi è la responsabilità? », chiede questa donna che si definisce «insegnante di scuola primaria e vedova del lavoro». E che ha rifiutato qualsiasi tipo di accordo stragiudiziale. «Mi hanno offerto dei soldi ma io non li ho accettati perché voglio arrivare alla verità in un’aula di tribunale – ribadisce la signora Spagnuolo –. Ma chi non se lo può permettere deve per questo rinunciare ad avere giustizia? Non si può vivere con l’incubo della prescrizione sulla testa. È giusto che una persona non debba stare a processo tutta la vita, ma la mia, di vita, è stata distrutta per sempre. Non cerco vendetta, perché nessuna condanna mi potrà ridare mio marito, chiedo soltanto giustizia. E lo faccio anche per chi non ha più la forza di urlare il proprio dolore. Come dissi una volta all’allora presidente Napolitano: i morti sul lavoro non hanno un volto. Io ho dato loro quello di mio marito. A lui hanno tolto la voce e allora parlo io anche per Giuseppe».

Ultimamente, il “volto” delle vittime del lavoro è diventato quello di Luana D’Orazio, operaia di 22 anni, già mamma di un bimbo di 5, stritolata dagli ingranaggi di un orditoio in una fabbrica tessile di Montemurlo, in provincia di Prato, il 3 maggio scorso. Per molti giorni, i media ne hanno parlato facendolo diventare “il” caso emblematico. Una sovraesposizione mediatica che ha portato alla conclusione delle indagini in soli 4 mesi. Un «esempio virtuoso» – da replicare per tutti gli infortuni, anche per quelli che non finiscono in prima pagina – per il direttore dell’Inl Giordano, che da magistrato sa bene quanto siano «lunghe e complesse» le indagini sugli incidenti sul lavoro. Per accorciare i tempi, le parole d’ordine, insiste Giordano, devono essere due: competenza e specializzazione. «Per dare giustizia alle vittime del lavoro – ricorda – è necessario che tutti i corpi dello Stato siano allineati su questa direttrice ». La soluzione, interviene l’avvocato Cesare Bulgheroni di Milano, che da 35 anni segue anche i processi per le morti sul lavoro, è la Procura nazionale del lavoro, con magistrati dedicati. «Per processi più rapidi bisogna cambiare approccio », insiste il legale, sollecitando una «campagna di stampa che aiuti la gente a non abituarsi a queste morti».

Di certo, a non abituarsi alla strage quotidiana nelle fabbriche e nei cantieri è l’Anmil, l’associazione delle vittime e dei loro familiari. «Rispettare il dolore dei familiari di chi muore per il lavoro vuol dire evitare lunghi processi che aggiungono ogni volta sofferenza e che finiscano in prescrizione assolvendo i colpevoli – ricorda il presidente nazionale Zoello Forni –. Quello delle lungaggini dei procedimenti in materia di violazione delle norme su salute e sicurezza sul lavoro è un problema che ci preoccupa profondamente perché riguarda ed ha riguardato molti nostri associati. Spesso le famiglie di coloro che perdono la vita a causa del lavoro si ritrovano sole e, poiché i costi di un’assistenza legale sono sempre elevati e incerti difficilmente affrontano cause. Ma quando lo fanno, diventa per loro un ulteriore supplizio che provoca nuove sofferenze: il ritrovarsi costretti a rivivere la tragedia, udienza dopo udienza, nelle aule dei Tribunali».

Anche l’Anmil guarda allora con fiducia alla costituenda Procura nazionale del lavoro, «che potrebbe certamente assicurare maggiore velocità sia alla fase delle indagini che a quella del giudizio», ricorda il presidente Forni. «Ci auguriamo che su questa proposta possa essere raggiunta la massima condivisione, per assicurare maggiore efficienza e celerità ai procedimenti su temi così delicati – conclude –. La durata ragionevole dei processi è uno dei principi cardine di uno Stato di diritto, volto ad impedire che il perdurare di una situazione di incertezza possa tradursi in un danno maggiore o in un diniego di giustizia, a tutela di tutte le parti in causa».

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